Partito davvero democratico

giovedì, 15 marzo 2007

La domanda suonerà ingenua. E mi rendo conto che Romano Prodi e i dirigenti di Ds e Margherita hanno altro a cui pensare in queste ore, tra la neonata legge finanziaria e le tensioni crescenti al limite della scissione che rannuvolano la vigilia del seminario di Orvieto sul futuro Partito democratico. Ma neppure loro potranno eludere a lungo il seguente interrogativo: perché è così difficile in Italia dare vita a un partito davvero democratico? Lo so bene che la crisi della democrazia rappresentativa non è solo un problema nazionale. Fior di politologi ci mettono in guardia dai pericoli della “Postdemocrazia” (Colin Crouch, Laterza editore). O denunciano “la prospettiva di una società democratica che a causa della corruzione delle parole e dei discorsi, e del quasi-monopolio televisivo delle notizie e dell’informazione, rischia di trovarsi governata dai manipolatori di maggioranze popolari” (John Lukacs, “Democrazia e populismo”, Longanesi). Una politica che pare predestinata alla subalternità nei confronti di poteri economici sovrastanti. Abituandoci a una pratica assai misera della democrazia, “dove il cittadino non deve attivarsi né protestare: può semplicemente optare nel seggio elettorale per un altro partito, come fa il cliente che, scontento di un prodotto, sceglie la concorrenza” (Alessandro Casiccia, “Democrazia e vertigine finanziaria”, Bollati Boringhieri).
Mi scuso per la raffica di citazioni, il cui scopo è riproporre in altri termini la domanda iniziale: siamo in tempo per fare ancora qualcosa? Per restituire al cittadino una possibilità di partecipazione?
Basta guardarci intorno per avvertire il disincanto crescente nei confronti dell’attivismo civico e della democrazia partecipata: “Tanto è inutile. Le decisioni passano sopra la nostra testa. Al massimo mi consultano per un sondaggio. Comandano in pochi”, sono le frasi-tipo del cittadino deluso.
Ma così il primo a sbriciolarsi è il potenziale tessuto sociale dell’innovazione democratica. Il cittadino progressista non può accontentarsi di essere chiamato ogni tanto a votare, e basta. Semmai è l’elettorato conservatore storicamente più propenso alla delega nei confronti dell’uomo forte. E dunque allo snaturamento della sovranità popolare in nazionalismo populista.
Non fosse altro per questa ragione, gli stati maggiori dell’Ulivo dovrebbero avvertire l’emergenza di una delusione prossima a degenerare in rigetto antipolitico. Credo che fra le motivazioni nobili (ve ne sono altre prosaiche) che sospingono la sinistra Ds a opporsi alla fusione a freddo del Partito democratico, riconosciamolo, c’è il disagio per il mancato coinvolgimento della stessa platea congressuale dei partiti nel processo costituente.
Ma la questione è molto più grande, non si ferma all’assenza di una reale dialettica democratica all’interno di partiti già di per sé deboli nell’insediamento territoriale.
E’ passato quasi un anno dall’esperienza delle primarie dell’Unione. A nessuno è venuto in mente che l’indirizzario di quei quattro milioni e trecentomila nomi registrati di elettori del centrosinistra, potesse venire utilizzato dando vita a successive forme di consultazione democratica. Al contrario. Quando il centrodestra ha imposto una legge elettorale che incoraggiava scelte di tipo oligarchico nella selezione delle candidature, i dirigenti dell’Ulivo non si sono preoccupati di ricorrere a contromisure alternative: nessuna consultazione degli iscritti né tanto meno degli elettori per discutere la propria rappresentanza. Diciamo che hanno subito volentieri il diktat. E resta celebre l’ammissione di Goffredo Bettini: “A decidere quasi per intero la composizione del futuro Parlamento sono state non più di venti persone”.
E’ ben comprensibile che in un tale sistema bloccato appaia temerario anche solo concepire nuovi meccanismi di selezione della rappresentanza politica utili a incoraggiarne il rinnovamento, soprattutto in favore di un’adeguata presenza femminile e giovanile. Né la risposta può venire dall’esaltazione retorica di un’inesistente “società civile”, le cui associazioni oggi come oggi possono solo promuovere nuovi aspiranti politici di professione, desiderosi di affiancarsi ai leader attuali, ma non per questo migliori.
Poco invidiabile è la posizione in cui si trovano i gruppi dirigenti di Ds e Margherita, ben consapevoli dell’inadeguatezza dei loro partiti e della necessità di andare oltre. Ma nello stesso tempo comprensibilmente restii a procedere verso un impossibile autoscioglimento.
Accade così che la natura democratica del futuro Partito democratico finisca per essere l’ultimo dei problemi all’ordine del giorno. Mentre dovrebbe essere il primo.
E nel frattempo? Nel frattempo ciascuno si aggrappa a quel che ha. Per gli uni è la memoria di un’identità democratico cristiana. Per altri nuovi arrivati è il rapporto privilegiato con la Cei. Nella minoranza Ds è il riferimento (acquisito tardivamente) al partito del socialismo europeo. Nella maggioranza Ds affiora, da ultimo a Milano, una pericolosa frantumazione in clan autoreferenziali. Perfino gli ulivisti giocoforza si ridimensionano in prodiani: perché Palazzo Chigi sembra essere divenuto la loro unica sede politica, cui si accede per trascorsa contiguità professionale o dimestichezza personale con il premier.
Così il futuro Partito democratico rischia due alternative deprimenti: nascere come assemblaggio di correnti distaccate da una effettiva partecipazione popolare, grazie a un’accorta ripartizione di quote; oppure essere concepito come palingenesi sulle macerie dei partiti attuali, figlio di un impossibile big bang o di un ricambio radicale dei gruppi dirigenti.
Eppure chiunque partecipi alle affollate assemblee cittadine che da mesi si tengono dappertutto in Italia per sollecitare la nascita del Partito democratico può rendersi conto che non vi si ritrovano solo ex politici “fatti fuori”, aspiranti parlamentari della “società civile”, nostalgici dei girotondi antipartito.
Nessuno ha ancora inventato uno strumento di rappresentanza politica più democratico di un partito. Ma è lecito aspirare, anche dopo la fine dei partiti-chiesa, a un partito che non sia ridotto a macchina elettorale o a nominificio o a mera struttura d’opinione?
Un partito davvero democratico, appunto, è quel che ci manca. Capace di inventarsi nuovi strumenti di consultazione periodica dei cittadini. Interessato a favorirne l’attivismo civico. Disposto a lasciarsi trasformare dalla partecipazione dal basso, cioè da una politica che adempie il responso elettorale ma non si esaurisce nella delega che ne ha tratto.
Cercare un antidoto popolare alla debolezza della politica: questa è la vera urgenza cui dovrebbero lavorare i democratici italiani.
Da “La Repubblica”.

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