I rom e la vergogna di milano

venerdì, 25 maggio 2007

Settantasei brandine appiccicate una all’altra sul linoleum dell’auditorium, al posto delle sedie da convegno ammucchiate nel cortile: questo riesce a offrire la Casa della Carità appena nata alla periferia orientale di Milano, in via Brambilla, agli uomini, alle donne e ai tanti bambini trattati come materiale umano di scarto da un’assessore comunale alla Sicurezza, sì, alla Sicurezza, il totem della litigiosa giunta Albertini. E dobbiamo pure un grazie sincero a don Virgilio Colmegna, don Massimo Mapelli, Maria Grazia Guida e agli altri volontari che leniscono così la sofferenza dei rom rumeni sgomberati dal loro accampamento di via Capo Rizzuto. Ma non possono certo rimediare il senso di vergogna che cresce fra i milanesi di fronte alle pubbliche autorità che hanno celebrato il rito propiziatorio della distruzione della baraccopoli, per poi annunciare: non sarà più affar nostro dove debbano andare a sbattere queste vite senza diritti.
Qui il terrorismo non c’entra. C’entra lo stupro di una minorenne, e l’indagine che ha portato a catturare il palo del branco dei violentatori fra quelle baracche di lamiera e cartone. C’entra il bisogno di dirottare su un’intera comunità “colpevole” la rabbia della città impaurita. Da qui l’annuncio del sindaco Albertini: non tollereremo più favelas illegali sul territorio comunale. E l’ordine impartito alla polizia: raderle al suolo, con irruzioni a sorpresa, senza badare agli effetti personali di chi le popola. Dopo via Capo Rizzuto, lunedì è toccato all’accampamento di via San Luigi.
Poco importa che la stessa polizia definisca “non estradabili”, in quanto forniti di permesso di soggiorno, i 76 rom della Casa della Carità. Sono per lo più muratori, camerieri, camionisti, badanti; molti bambini sono iscritti alle scuole di zona. Ora giocano e disegnano (soprattutto disegnano case) lì nell’atrio della Casa della Carità, mescolati alle altre persone in difficoltà che vi hanno trovato rifugio. Ma non per molto. “E’ una situazione che non può durare a lungo né per noi né per loro”, spiegano i volontari che li hanno raccolti dalla strada.
Dobbiamo chiederci quale istinto, quale sentimento induca le pubbliche autorità a rivendicare la scelta di abbandonare a se stessi questi abitanti scomodi delle periferie urbane. Come possa illudersi nell’estate 2005, il sindaco di una metropoli, di cancellarli con una dichiarazione e con un pogrom: mai più campi a Milano. Eppure chiunque prenda il treno verso Torino o verso Brescia li vede estendersi, al bordo delle rotaie, questi moderni insediamenti derelitti. Ormai parte integrante, anche se inaccettabile e dunque rimossa, del nostro paesaggio urbano.
Non pretendiamo che Albertini abbia letto Zygmunt Bauman: i campi profughi come espedienti temporanei trasformati in soluzione permanente, sospesi in un vuoto spaziale. Proliferati dalle periferie del mondo fin dentro il cuore della nostra civiltà, come sottoprodotto della globalizzazione, come metafora del precipizio cui dobbiamosfuggire. Sappiamo bene come inceda la desensibilizzazione al dolore altrui di noi spettatori inquieti, assuefatti all’esplosione delle disuguaglianze. Ma davvero non immaginavamo che la tetra profezia di Bauman sugli esseri umani di scarto trovasse conferma così prossima, nei nostri stessi rappresentanti politici, coloro che per definizione dovrebbero farsi carico, e invece troviamo già dediti al puro e semplice “smaltimento dei rifiuti umani”.
Probabilmente Albertini e il suo assessore alla Sicurezza, che solo per dieci giorni hanno ritenuto di ospitare i 76 rom nei locali della Protezione civile per poi lavarsene le mani, ritengono di agire in sintonia con il comune sentire dei loro elettori. Ma è un calcolo cinico e ingeneroso: perché Milano davvero comincia a provare vergogna. Ed è un calcolo miope: perché il popolo delle favelas nostrane –non tutti delinquenti, non tutti clandestini, non tutti stranieri- è una moltitudine impossibile da cancellare con le ruspe.
Quell’auditorium della Casa della Carità, ultimo lascito del cardinale Martini, è uno dei pochi luoghi milanesi in cui ci si riunisce per ragionare di politiche sociali, di soluzioni abitative e lavorative dapprima provvisorie e poi d’integrazione, comunque lungimiranti. Si ragiona e si agisce: don Massimo è appena tornato da una villeggiatura con 45 bambini nomadi. Oggi al posto degli studiosi e dei volontari ci sono le brandine.
La politica invece di aiutare sembra creargli il vuoto intorno. S’illude di lucrare sulla paura e sull’indifferenza.
Del resto lo scorso febbraio, quando un giudice di Lecco scarcerò tre donne nomadi perché non credeva volessero rapire una bambina (di quanti bambini rapiti dagli zingari siete a conoscenza?), protestò addirittura il Presidente della Camera. E il ministro della Giustizia pretese magistrati in linea con “il comune sentire del popolo”. Ma grazie al cielo il popolo milanese e lombardo non è come se lo immagina quel ministro. E la nostra legge non contempla ancora la nozione di vite di scarto.
Da “La Repubblica”.

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