Walter Veltroni

mercoledì, 27 giugno 2007

So bene che Veltroni è una risorsa preziosa per il nascente Partito democratico, e proprio per questo voglio chiedergli nel giorno stesso in cui annuncia il suo nuovo impegno: caro Walter, perché non vai in Africa? La domanda è tutt’altro che oziosa, e poco m’importa se chi la solleva viene tacciato d’ingenuità nell’ambiente disincantato della politica italiana. Al contrario sono sicuro che Walter risponderà, forse avrà già risposto quando mi leggerete, nella consapevolezza che è giusto frugare dentro alle ambizioni e ai comportamenti di chi si candida a un ruolo di protagonista. Perché un uomo già appagato desidera la leadership? Come motiva il cambiamento di programma rispetto agli impegni esistenziali già assunti in pubblico? Siamo sicuri che fare il leader di partito sia più importante, ma soprattutto più utile, che fare il volontario in Africa?
A costo di essere sgarbato, confesso ai lettori di “Vanity fair” che questi interrogativi a Veltroni avrei inteso rivolgerli da una tribuna più adatta: il mensile dei missionari comboniani “Nigrizia”, cui collaboro da molti anni. Walter lo sa, gliel’ho voluto dire prima di persona perché abbiamo una solida confidenza e questo non vuole essere un dispetto. Ma nel frattempo la candidatura a segretario del Pd e a successore di Prodi gli è precipitata letteralmente addosso, con i meccanismi ambigui della chiamata dall’alto e del plebiscito mediatico. Lui non ha potuto sottrarsi. E dunque pure io gli invio la mia domanda tramite “Vanity fair”, giornale su cui scriviamo entrambi.
Ripeto: caro Walter, perché non vai in Africa?
Sono passati cinque anni da quando Veltroni, riflettendo sulla sua esperienza di sindaco di Roma, svolgeva in pubblico un ragionamento saggio, che ne ha indubbiamente accresciuto la credibilità. “Una cosa ho chiara nella mente: che alla fine del mio mandato non voglio nessun altro incarico. Fare il sindaco lo considero il mio ultimo lavoro in politica. Potrei arrivare al 2011, anno in cui avrò 56 anni. Spero a quel punto di poter andare a fare un’esperienza lunga in Africa dove ho lasciato un pezzo di me”. Da coetaneo, avevo apprezzato sia la lucidità con cui rifletteva sul proprio intensissimo, fortunato percorso di vita; sia l’approccio prudente e responsabile alla svolta esistenziale che meditava: “Andare in Africa con mia moglie e lavorare laggiù, per qualche ong, se le condizioni della mia famiglia saranno tranquille e se ne avrò la forza”.
All’estero è normale che un politico decida di ritirarsi, dedicandosi ad altre attività, dopo il giro di boa dei cinquant’anni. In questi giorni lo ha fatto Tony Blair. Ma sono rari i leader di primo piano capaci di scelte radicali, non remunerative. In Italia mi viene in mente solo Giuseppe Dossetti.
Bravo Walter, avevo pensato. Fai una scelta coraggiosa e esemplare. Riempi di significato la tua attuale missione politica. La nobiliti riconoscendone i limiti e ricordando ai giovani che l’impegno per gli altri si può manifestare in tanti modi, non solo nella politica. Il volontariato è un’attività per lo meno altrettanto importante. E’ probabile che l’indicazione di Veltroni abbia influenzato di recente pure la scelta di Mariella Gramaglia, già assessore alla Semplificazione e alle Pari Opportunità nella sua giunta capitolina, che ha lasciato l’incarico per andare a lavorare in India con le donne del Gujarat.
Lasciamo pure che qualche idiota consideri un siluro il mio richiamo ai propositi diversi di Veltroni. Lo scopo principale che personalmente attribuisco al Partito democratico è proprio quello di guarire una politica malata, rifondando le regole e il significato della militanza pubblica. Stabilendo un limite ai mandati, favorendo il ricambio, proponendo le necessarie incompatibilità. Oggi in Italia la riforma della politica è più necessaria e più urgente della gara per la leadership.
Per questo considero importante che Walter Veltroni ci spieghi cos’è cambiato per lui quando la candidatura a leader del Pd gli è precipitata addosso, modificando i progetti di vita annunciati.
Da “Vanity Fair”.

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