Il partito quiproquò

mercoledì, 11 luglio 2007

Il tempo passa: da ben undici anni è in campo il progetto incompiuto dell’Ulivo –un’eternità in politica. Eppure il partito democratico promesso e invocato da Prodi, Fassino, Rutelli rimane ancora lì sullo sfondo, enigmatico, alimentando il dubbio: nascerà davvero o si tratta solo dell’ennesimo partito quiproquò? I protagonisti di questa lunghissima transizione affrontata con provvisorie identità vegetali (querce, margherite, rose, ulivi) riconoscono tutti il partito democratico come approdo necessario e come destino comune. Ma nel passaggio dal dire al fare appaiono sopraffatti da altre priorità, si studiano guardinghi l’uno con l’altro, mal dissimulano i rancori personali accumulati cammin facendo, temono sopraffazioni altrui e lacerazioni interne. Dunque esitano a compiere il passo di non ritorno: la convocazione dei congressi di scioglimento delle rispettive formazioni politiche.
Diciamoci la verità: la fondazione di un nuovo partito –per quanto grande e unitario- non si presenta di per sé come necessità improrogabile agli occhi di chi già è impegnato nell’attività politica; né tanto meno possiamo pretendere che sia vissuta come obbiettivo entusiasmante dagli elettori del centrosinistra cui stava ben più a cuore la sconfitta di Berlusconi. Ad appassionarci del partito democratico, per com’è andata fin qui, rischiamo di ritrovarci davvero in pochi. Tanto più se prevale la constatazione che nella sua faticosa genesi ci sia ben poco di democratico.
In Italia facciamo un’enorme fatica a immaginare una politica organizzata diversamente. Anche perché la democrazia rappresentativa nel frattempo si è indebolita, deve fare i conti con poteri economici, mediatici, finanziari che paiono sovrastare la politica. La stessa architettura barocca dei nove partiti di centrosinistra sembra fatta apposta per favorire veti e ricatti da parte di ogni singola corporazione interessata a frenare l’innovazione del paese.
Tutto ciò ha diffuso fra i cittadini una pericolosa sensazione d’impotenza. Ci resta il diritto di voto ma per il resto sulle decisioni che contano non abbiamo voce in capitolo. Comandano sempre e solo “loro”, i supermanager, i banchieri e una ristretta oligarchia di addetti alle istituzioni. Liberi di agire al riparo da un efficace controllo democratico e quasi sempre dispensati dalla selezione e dal ricambio con cui altrove, nei sistemi aperti, si rinnovano le classi dirigenti.
Non è certo un caso se i vertici di Ds e Margherita hanno dedicato all’analisi dei risultati elettorali un tempo infinitamente minore di quello trascorso nella compilazione delle liste dei candidati. Né si è levata una sola voce autocritica sul grave errore compiuto presentandosi separatamente al Senato, dov’è comprovato che il simbolo unitario dell’Ulivo avrebbe garantito come minimo quindici seggi di maggioranza.
Sottovalutati l’energia e il radicamento del berlusconismo, dopo i suoi cinque disastrosi anni di governo, i leader di Ds e Margherita confidavano infatti di poter vincere le elezioni senza bisogno di eccedere nell’innovazione politica. Hanno rinviato a dopo il voto quel che era necessario prima, per fronteggiare l’onda d’urto del populismo e degli interessi conservatori. E hanno rischiato grosso.
Così il centrosinistra è giunto solo per un soffio a governare un paese diverso da come se lo immaginava. Dagli industriali di Vicenza alle rappresentanze sindacali di Mirafiori, dall’emersione di fenomeni di corruzione diffusa al disincanto antipolitico, per cercare di capire ricorriamo a una frettolosa metafora gastrica: la pancia del paese, il ventre, le viscere sempre più distanti dalla sua testa pensante. Una caricatura approssimativa. Esasperata dalla carenza di strumenti interpretativi che affligge partiti ridotti a macchine elettorali, a nominifici ormai debolissimi nell’insediamento territoriale. Con il rischio di riproporre una partitocrazia senza partiti, come dice Massimo Cacciari.
Solo da questo riconoscimento di una democrazia che rischia lo snaturamento e di una politica sottratta alla partecipazione dei cittadini può prendere il via un progetto ambizioso di partito democratico: nel quale Ds e Margherita facciano i conti con una crisi di prospettive che nessun cumulo di cariche di governo da solo potrà risolvere.
E’ chiaro che senza una loro assunzione di responsabilità lungimirante né Prodi né nessun altro potrà sciogliere questo nodo drammatico della democrazia italiana. Corriamo anzi il rischio che il riesplodere delle inchieste giudiziarie sull’illegalità diffusa e il restringersi degli ambiti decisionali, suscitino un’ondata di rigetto antipolitico: di cui la prima vittima sarebbe il governo di centrosinistra. Lo stesso progetto incompiuto dell’Ulivo, già dato per morto e risorto più volte nel corso del decennio, sempre oscillante nel suo rapporto tempestoso con le forze politiche organizzate, rischia di implodere se nei prossimi mesi non troverà una casa accogliente: quale oggi il partito democratico non sembra ancora poter essere.
Non è infatti questione di quote e spazi da assegnare per cooptazione a nuovi aspiranti politici provenienti dalla cosiddetta società civile (espressione retorica che andrebbe abolita). L’esperienza dell’Ulivo è semmai risultata vincente, anche sul piano elettorale, proprio perché corrispondeva a bisogni che altrove non trovavano più risposta: attivismo civico, controllo democratico, democrazia partecipata, allargamento dello spazio pubblico alle donne e ai giovani, protagonismo nella selezione della classe dirigente, ricambio della rappresentanza. Le primarie dell’Unione hanno dimostrato che quando si offrono tali possibilità la cittadinanza attiva risponde massicciamente, il triplo di quanto non si attendessero il ceto politico e giornalistico.
Capisco che i partiti esistenti, dai quali sarebbe impensabile prescindere e di cui nessuno può augurarsi la dissoluzione, hanno i loro problemi. Il timore è però che tali problemi li distolgano da una visione adeguata della realtà, che impone un ripensamento strutturale del loro stesso rapporto con la società italiana. Non è pensabile infatti un partito democratico verticale che prescinda dalle multiformi esigenze territoriali di cui dovrebbe esprimere la rappresentanza. Un partito federale, dunque. Vivificato da un flusso costante di consultazioni e da una continua offerta di partecipazione decisionale. In sintesi, un partito che si proponga ai cittadini quale antidoto alla deriva oligarchica e alla crisi della democrazia.
Solo in questa luce ha senso guardare ai problemi interni dei partiti. La Margherita, innanzitutto, teme di vedere dissipato il suo patrimonio dalla pulsione egemonica dell’apparato diessino (sensibilizzata a ciò anche da un attore forte come la Chiesa italiana). Fu tale preoccupazione che spinse un anno fa Rutelli a sostenere una tesi rivelatasi infondata: “L’esperienza inequivocabile delle ultime elezioni regionali indica che le liste distinte dei partiti che formano la Federazione dell’Ulivo possono raccogliere più voti che non la lista ‘Uniti nell’Ulivo’”. Come è noto questa posizione fu corretta in parte solo il giorno dopo le primarie, anche per timore che Prodi desse vita ad un’autonoma lista ulivista.
I Ds a loro volta hanno evidenziato un’insopprimibile ansia di legittimazione della loro antica militanza comunista, esplosa nei giorni del rinnovo delle cariche istituzionali. In quanto “primo partito della coalizione” hanno chiesto che al Quirinale venisse eletto Massimo D’Alema e, in subordine, un’altra personalità contraddistinta dal medesimo itinerario nel Pci. Di fronte a tale priorità esistenziale la comune appartenenza ulivista pareva quasi scomparire.
In sintesi, la vicenda elettorale e la successiva ripartizione delle cariche di governo ha confermato come per Ds e Margherita l’esigenza di contarsi prevalesse su ogni altra, compresa quella di presentarsi ovunque uniti con un simbolo vincente. Ma d’ora in poi quel bisogno di contarsi potrebbe rivelarsi letale, bloccando il rinnovamento della politica italiana.
Proprio questo sarebbe il partito quiproquò: l’illusoria fusione di due forze che da sole non ce la faranno mai a fondersi davvero. Nonostante il passo avanti dei gruppi parlamentari dell’Ulivo. Nonostante la leadership da entrambi riconosciuta a Romano Prodi.
A tale equivoco, per fortuna, si può reagire con un argomento concreto. Il partito democratico che c’è già. Milioni di elettori dell’Ulivo, soprattutto giovani, che ormai faticherebbero a esercitare una scelta obbligata tra Ds e Margherita. L’esperienza amministrativa di sindaci e presidenti di regione come Veltroni, Cacciari, Chiamparino, Pericu, Emiliano, Illy, Soru e tanti altri che di fatto il partito democratico lo hanno realizzato sul territorio senza che sia pensabile per loro una marcia indietro. Il superamento di fatto, nell’elaborazione culturale e nella pratica associativa, dei confini fra le diverse tradizioni riformiste novecentesche.
Ai dirigenti dei Ds e della Margherita, insieme a Romano Prodi, spetta la prima mossa. Ma in giro per l’Italia l’intelaiatura del partito democratico esiste già. Purchè nasca davvero come un progetto democratico, capace di restituire ai cittadini che lo desiderano –e sono molti- la certezza di avere voce in capitolo sul proprio destino e sul futuro della nostra comunità.
Da “La Repubblica”.

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