Rom livorno

martedì, 14 agosto 2007

Di fronte a Cloptar (4 anni), Tuca (6 anni), Mengi (8 anni) e Eva (11 anni) bruciati nella loro baracca sotto un cavalcavia alla periferia nord di Livorno, non esistono i buoni e i cattivi sentimenti. La sorte di quei bambini smuove dentro di noi qualche cosa di più difficile da confessare. La tentazione è cavarcela addebitando a genitori negligenti per natura –giustamente perseguiti dalla magistratura- una tragedia che ci appare letteralmente di un “altro mondo”, spuntato di fianco a casa nostra senza chiedere il permesso, indesiderato.
Tendiamo quindi a concederci una deroga culturale, nei confronti dei rom. Gente per la quale la vita e la morte avrebbero un valore diverso da quello che noi gli attribuiamo, perfino quando a morire sono i loro figli. Dubitiamo che soffrano come noi. Li consideriamo un popolo dall’innata propensione al vagabondaggio, al furto, alla brutalità sulle donne e sulla prole. Ma ne siamo proprio sicuri?
Abbiamo eretto solidi tabù culturali contro il razzismo biologico. Condanniamo chi discrimina il prossimo in base al colore della pelle. Pochi giorni fa un sacerdote ha dovuto chiedere scusa per una infelice battuta sugli ebrei. Grazie alla globalizzazione vi sono poi comunità immigrate la cui tutela viene assunta direttamente dai paesi d’origine: attaccare i cinesi di via Paolo Sarpi a Milano provoca l’immediata, temibile protesta del governo di Pechino.
I rom non hanno potenze straniere dietro le spalle. Rappresentano l’eccezione alla regola del “politically correct”. L’alto tasso di delinquenza, alcolismo, nomadismo, disoccupazione che li contraddistingue, è un fatto comprovato. Un fatto che inquieta e impaurisce. E allora scatta una generalizzazione impensabile nei confronti di altri popoli: la maggioranza degli italiani si sente autorizzata a pensare che i rom sono pericolosi. Colpevoli. Tutti quanti. Per loro stessa natura. Per tradizione culturale. Al massimo se ne salverà qualcuno, poche mele sane in un cesto di mele marce da rispedire al mittente. Solo che il mittente non esiste, e non si sa a chi rispedirli.
Scatta così la licenza verbale. Quando la Lega nord ha tappezzato Milano di manifesti con su scritto “Campi rom, fora de ball”, nessuno vi ha ravvisato gli estremi dell’incitamento all’odio razziale. Quando amministratori di destra e di sinistra dichiarano che una metropoli di milioni di abitanti “non può sopportare la presenza di più di tremila rom”, quest’idea di numero chiuso su base etnica viene accettata come ragionevole. Perché i rom sono troppo diversi, i rom non diventeranno mai come noialtri.
La licenza verbale anticipa così il bisogno di purificazione del territorio. Con il fuoco, se necessario. Erano cittadini benpensanti, non delinquenti, quelli che applaudirono il 21 dicembre 2006 la spedizione punitiva che bruciò le tende di 73 nomadi (più di metà bambini) autorizzati a un insediamento provvisorio in un campo di Opera, nel milanese. Troppo facile liquidare come “cattivi” i paesani di Appignano del Tronto che il 24 aprile scorso incendiarono l’accampamento in cui viveva Marco Ahmetovic, il rom ubriaco che investì e uccise quattro poveri ragazzi. A proposito: Ahmetovic è tuttora detenuto in carcere, a differenza dell’ubriaco che il 15 luglio ha travolto una sedicenne in provincia di Torino, scarcerato dopo 27 giorni.
La paura degli zingari è antica come la leggenda che attribuisce loro il ratto dei bambini: rinverdita ogni anno da denunce puntualmente archiviate. Li si accusa di malefici riti magici e di propensione alla violenza carnale. Un pericolo ingigantito come le cifre che li riguardano: 140 mila persone, più di metà cittadini italiani, lo 0,3% della popolazione. Con l’incremento dovuto a un flusso migratorio dalla Romania di rom divenuti quest’anno nostri concittadini dell’Unione europea.
Accade così che un sindaco impegnato ad attrezzare piccole aree d’accoglienza (la soluzione vigente altrove) rischi per ciò stesso la sua carriera politica. Se poi ai rom vengono assegnate case popolari e se si garantisce l’inserimento dei loro figli nelle scuole primarie, scatta immediata l’accusa di favoritismo. A Rho, città in pieno sviluppo grazie al nuovo polo fieristico milanese, la giunta di centrosinistra è caduta per l’ospitalità garantita a 60 (sessanta!) romeni. Mentre si propagano false voci di sussidi pubblici garantiti agli zingari nullafacenti, per giunta portatori di malattie contagiose.
Molto più redditizio politicamente è invocare lo sgombero generalizzato degli insediamenti abusivi che spuntano come funghi negli interstizi del tessuto metropolitano. Chiunque invoca lo sgombero riceve plausi generalizzati, salvo che da parte delle forze dell’ordine. La retorica dello sgombero facile si scontra infatti con banali considerazioni di fatto: la maggioranza degli abitanti delle baraccopoli è costituita da persone non estradabili. Dunque la polizia agisce malvolentieri, spesso concordando il sostegno preventivo delle strutture di volontariato che garantiscono almeno a donne e bambini il ricovero provvisorio negato dalle amministrazioni comunali. Sapendo benissimo che la notte dopo i senzatetto andranno a dormire in un altro campo abusivo, sotto un altro cavalcavia.
Il popolo rom si trova così a simboleggiare un nomadismo, eredità di secoli di persecuzioni, che ormai riguarda controvoglia decine e decine di migliaia di altre vite a perdere. Mariti separati, famiglie sfrattate, anziani soli, lavoratori immigrati senza alloggio, clandestini di ogni tipo, manovali della criminalità organizzata. Tutti mescolati nelle baraccopoli che sorgono dappertutto –simili a campi profughi- sempre più derelitte, minacciose, quindi difficili da non vedere.
Solo una politica demagogica può avere la sfrontatezza di prometterne la cancellazione. Ma risulta tremendamente impopolare lavorarci dentro con l’obbiettivo di sanare le emergenze delinquenziali, sanitarie e d’inciviltà. Un’impresa difficilissima, soggetta a continui fallimenti, ma priva di alternative. Dopo avere proposto invano la costruzione di piccoli “villaggi solidali” nei comuni dell’hinterland, la Casa della Carità di Milano ha concordato con il Comune il varo di un “Patto di socialità e legalità”. Per essere ospitati nelle strutture attrezzate, i rom vengono censiti e sottoscrivono un vero e proprio contratto di cittadinanza che li eleva a titolari di diritti e doveri: il pagamento delle bollette, il rispetto dell’obbligo scolastico, normative di sicurezza. Intorno a loro però dilagano la paura e l’intolleranza, alimentate da una cronaca ben poco incoraggiante: quando i giornali pubblicano la sequenza fotografica dei bambini rom borseggiatori sul piazzale della Stazione Centrale, serpeggia una comprensibile furia ed è come se si dovesse ricominciare da capo.
Non ci sono buoni e cattivi di fronte agli abitanti più scomodi delle nostre periferie urbane. Per questo l’atroce fine dei bambini lasciati soli sotto il cavalcavia di Livorno, e la sofferenza della loro sorella quindicenne incinta, suscitano riflessioni inquietanti.
Una cosa però dobbiamo dircela chiara, anche se è scomoda. Non possiamo più permetterci di considerare i rom e gli altri abitanti delle bidonvilles come materiale umano di scarto. Cancellarli non si può, a meno di concepirne lo sterminio. Una follia? Niente affatto: è l’unico esito coerente, dilazionato nel tempo, del malumore che cova e dello scricchiolio sinistro del nostro codice morale. Chi lo avrebbe mai previsto, nell’Europa dei primi decenni del Novecento, che l’ostilità nei confronti di un popolo definito “colpevole” nel suo insieme sarebbe sfociata nella soluzione finale?
Da “La Repubblica”.

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