Toni Negri, lascia stare Materazzi

venerdì, 9 novembre 2007

Marco Materazzi

Ma che cosa gli sarà saltato in mente, al milanista Toni Negri, di prendersela con Marco Materazzi? Dal pulpito di “Libération”, per
lisciare il pelo ai francesi, spara sul bersaglio più sbagliati: cioè indica Matrix come simbiolo di un calcio spersonalizzato, tipo videogioco praticato da automi. Ma la conosce il milanista Toni Negri la vita di Matrix? A furia di frequentare università in giro per il
mondo, mi sa che ha perduto ogni residuo contatto con il più autentico proletariato italiano. E allora per sua e vostra documentazione vi propongo l’articolo che più mi è piaciuto scrivere quest’anno per “Vanity fair”.

Il mio lungo incontro con Marco Materazzi. Leggete, si parla anche di zingari…

Mi scuserete se la prendo alla lontana per raccontarvi il mio incontro con un uomo che la vita ha scolpito a forma di cattivo. Campione del mondo e campione d’Italia, ma ancora il più insultato negli stadi italiani. Perché in campo sfida il dolore che ha dentro, gioca duro, può far male. E allora noi nerazzurri, perdenti in cerca di riscatto proprio come lui, lo adoriamo: “Tutti pazzi per Materazzi!”. Mentre gli avversari, speranzosi di fargli perdere la testa fino al cartellino rosso, mirano dritto là dove gli fa più male –la mamma perduta a quindici anni: “Materazzi tu sei un figlio di…”.

Dunque il mio omaggio al proletario arrabbiato Marco Materazzi inizierà con le parole di un genio letterario, Kurt Vonnegut –da poco scomparso all’età di 84 anni- che sembrano scritte apposta per lui: “Noi siamo quel che facciamo finta di essere, sicchè dobbiamo stare molto attenti a quel che facciamo finta di essere”.

Capito? Veramente Vonnegut non pensava a Materazzi ma faceva la morale a uno dei suoi personaggi strampalati: tale Howard W. Campbell, commediografo americano che sposa un’attrice nella Germania nazista, allo scoppio della guerra viene reclutato dallo spionaggio americano, s’infiltra ai vertici della propaganda di Goebbels, diventa famoso con le sue odiose trasmissioni di radio Berlino in lingua inglese, ma dentro ci ficca messaggi in codice per gli alleati. Andrà giudicato colpevole o innocente?
Guarda caso, sulla home page del suo sito internet Marco Materazzi si presenta così:
“Chi mi conosce sa che sono un bravo ragazzo. Gli altri dicono di no”.

Bel problema, un buono che sembra cattivo. Avete presente la morale di Vonnegut? Noi siamo quel che facciamo finta di essere.
Marco è uno che si sente zingaro, ma si compiace di essere temuto come un killer. Per questo Materazzi a 33 anni è diventato Matrix. Guardatelo. Un corpo lungo zeppo di segni. Tatuaggi e cicatrici.

O meglio, leggetelo. Quel corpo impresso di significati. Che si muove per colpi secchi, lasciando il segno pure sull’avversario. Proprio come l’Inter, squadra sfigata, che a un certo punto si trasforma e realizza una lunga, straordinaria galoppata verso lo scudetto numero 15. Tutto quel pomeriggio insieme -nel salone design del condominio da calciatori in zona San Siro, play station monumentale come lo schermo al plasma e il quadro di lui che solleva la Coppa- sarà dedicato a rintracciare significati. Come quando s’illumina: “Il tuo nome è la sigla delle iniziali dei miei figli, Gianmarco, Anna, Davide. Per me deve significare qualcosa”. Una bimba minuscola s’inerpica su quel papà gigantesco, ignara del potere che gli infonde ricongiungendolo a un’altra Anna, l’angelo.

Allora ti va bene così? Materazzi è il campione cattivo?
“La vita a me non ha fatto sconti. Sono uno che si gioca tutto e, lo so, ha commesso delle cavolate. Allora sarebbe giusto che mi si canti: “Materazzi pezzo di merda” invece che “Materazzi figlio di…”. Mia madre s’è ammalata che avevo undici anni, l’ho persa, nessuno me la ridarà, e ogni volta mi viene ricordato. Ho vinto un Mondiale e l’ho fatto per l’Italia ma resto il più bersagliato dalle curve avversarie. E’ difficile sopportarlo, ma dopo quindici anni figuriamoci se mi faccio buttare fuori per un coro”.

Dì la verità che un po’ ti piace essere il guerriero maledetto.
“Mi sono fatto questa nomea, magari ottenendo meno cartellini rossi di quelli che avrei dovuto, però molti molti cartellini gialli più di quel che meritavo, capisci? Sono percepito come uno disposto a usare tutti i mezzi. Però leale, da potersi guardare allo specchio. Sbagliando e pagando, vedi Cirillo (febbraio 2004 a San Siro, Bruno Cirillo del Siena gli rivolge la frase proibita nel dopopartita, una manata di Materazzi gli spacca il labbro, due mesi di squalifica).

Poi è arrivato il Mondiale e ha fatto di te un eroe. Ti ho visto arrivare una sera con Daniela al concerto di Ligabue. Un boato, la folla vi ha circondati. Non era successo agli altri calciatori presenti.
“Mamma mia, Daniela voleva scomparire… E’ successo di colpo, a 33 anni. Ringrazio il Signore di quel che ci ha dato ma a Daniela non piace vedermi venerato come un re, magari le stesse persone che prima mi evitavano. Dopo Cirillo tornava a casa allibita. Lo sai cosa chiedono i bambini a scuola? Se è vero, poverina, che picchi pure me! Allora lo capisci che non scherzavo parlando di ‘giustizia divina’ dopo il gol alla Repubblica Ceca. Se ho fatto un gol come ho fatto, andando in cielo, e poi mi hanno sfottuto per l’espulsione con l’Australia ma ne ho fatto un altro in finale alla Francia, è perché qualcuno lassù mi ha aiutato”.

Adesso non esagerare.
Daniela ci interrompe: “Per fortuna ho una testimone, la moglie di Gattuso. Era seduta vicino a noi nello stadio di Berlino. Marco aveva provocato il rigore su Zidane. Era tutto buio, c’erano le nuvole. A un certo punto nel grigiume di Berlino arriva quel raggio di luce e illumina solo me, Gianmarco, Davide, Anna. ‘Dani non ci credo!’, grida Monica. In quell’istante Marco ha fatto il gol. Lei è scoppiata a piangere. Te lo giuro, mi viene ancora la pelle d’oca a parlarne. Una cosa bellissima, il raggio e solo noi quattro presi dal sole”.

Gattuso è un tuo amico. Conta qualcosa, se te lo trovi di fronte?
“Niente. Il piede non lo levo. In campo io mi trasformo, sono un’altra persona. E’ capitato con un altro amico come Luca Toni. Lui lo sa, io lo so. In campo io da lui le ho prese e porto i suoi segni sulla faccia. Lui da me le ha prese e porta i miei segni sulle gambe. Giusto così. Altrimenti la gente può pensare che siamo dei mercenari. A seconda di chi ti trovi davanti levi il piede o lo metti?”.

Ma voi siete dei mercenari. Se l’Inter ti vende al Barcellona tu ci vai e baci la maglia.
“Io per baciare una maglia ci ho sempre messo del tempo. In vita mia ne ho baciate solo due: Perugia, Inter. E non certo dopo dieci presenze. Un rapporto si fortifica nei dispiaceri, dopo i momenti brutti vissuti insieme. Troppo facile quando si vince baciare la maglia. Se passi il 5 maggio, Cirillo, Villareal, i tanti derby persi, e si rimane uniti nelle umiliazioni, allora ci può stare di baciare la maglia. Sapendo che i nostri tifosi sono stati accolti dappertutto dal coro ‘Non vincete mai’, e noi li abbiamo riscattati”.

Possiamo dire che l’Inter è come Materazzi? Lo sfigato che finalmente ce la fa?
“Fino alle inchieste sul calcio anch’io avrei detto così. Ma ora: altro che sfigati, stavamo antipatici a chi comandava sul campionato. Mi dispiace solo per i giocatori della Juventus, capisco la loro rabbia. Hanno fatto gli stessi sacrifici che faccio io e pagano le colpe dei loro dirigenti”.

Chi resterà di più nel tuo cuore fra i compagni di spogliatoio?
“Quelli con cui mi capisco di più sono gli zingari”.

Zingari?
“Io mi ci sento, zingaro. E con me i vari Recoba, Ibrahimovic, Stankovic, lo stesso Dacourt: un’intelligenza speciale Olivier, il tipo che legge libri e colleziona quadri”.

A 33 anni non ti toccherebbe di fare il papà saggio per i più ragazzini?
“Ma io mi sento ragazzino. Io sono l’eterno cazzaro, non so come dire. Sarò un bambinone ma a me piace ridere e fare casino, difficilmente cambierò. In allenamento è difficile che faccia un’entrata, che vada al 110%. Te l’ho detto: solo il campo mi trasforma”.

Uno zingaro che però non riesce a scherzare su quel che la vita gli ha tolto.
“Come potrei? Il mio più grande rammarico è che mamma non ce l’abbia fatta perché quel tumore al seno, grosso già 6 centimetri, l’ha scoperto nel 1985. Magari oggi saprebbero curarlo”.

Per proteggerti, ne venivi tenuto all’oscuro?
“Da bambino non sai ma immagini. Una volta tornavo da scuola con la mia bici scassata recuperata nel cassonetto. Nel giardino della villetta a schiera di Pisa c’erano tante macchine. Di colpo l’ho pensato: mamma non c’è più. Invece dalla camera da letto veniva la sua voce. Ma io lo sapevo che se ne sarebbe andata. Mio padre allenava. Chiudeva la sede come si faceva una volta, tornava a casa e doveva cucinare. Faceva il papà e il mammo. Lei magari metteva la parrucca per non farsi vedere calva dai figli, ma la serenità era perduta”.

Il cancro resta l’incubo dei nostri tempi. Riesci a dare una mano alle associazioni dei malati?
“Vedi, ogni volta che ne parlo mi riduco così, le lacrime agli occhi. Non ho paura, ma non ce la faccio. A me e a Daniela viene più facile aiutare i bambini dell’Africa”.

Ho capito che è stata Daniela a salvarti.
“Io penso che me l’abbia fatta conoscere mia madre. E sempre lei, mia madre, ci ha dato la figlia femmina, visto che nessuno in casa mia ce l’ha. Per questo ho voluto le mie ali. Tatuarle è una cosa molto dolorosa. Sei aghi che ti penetrano la schiena per quattro ore di fila. Già mi ero ripromesso di metterle, ma solo se fosse venuta una figlia. Le riunisce il nome Anna, mia mamma e mia figlia. Mentre le ali dell’angelo avvolgono il nome mio e di mia moglie. Poi naturalmente ci sono i due ragazzi”.

Perché stamparsi la pelle così, per sempre?
Per ricordare, non solo con la testa. Tornare a certi momenti belli o brutti ogni volta che guardi il tatuaggio. Vedi questa V dentro a una stella? E’ la morte di Valentina, un’amica cara, la moglie di Bucchi. Ce l’abbiamo tutti e due, come la fede tatuata sul dito. Per lo scudetto dovresti farti un tatuaggio anche tu!”.

Ma che senso ha scrivere l’anima sul corpo?
Daniela: “Per condividerla. Vedi il mio indiano allegro? Marco invece ne ha uno furioso perché lui in quel periodo era incazzato nero con l’allenatore che lo teneva fuori (Galeone). Il tatuaggio esprime lo stato d’animo. Non a caso lo fanno i carcerati”.
Marco: “E’ verissimo. Per esempio queste lunghe scritte me le sono tatuate dopo Cirillo. Avambraccio sinistro: ‘Se un problema si può risolvere perché preoccuparsi?’. Avambraccio destro: ‘Se un problema non si può risolvere a che serve preoccuparsi?’. Lo leggo, lo rileggo e mi placo. Chi me la fa fare di arrabbiarmi se la gente che non mi conosce pensa che sono cattivo?”.

Dite la verità: è un’esaltazione del corpo del giocatore, simbolo di potenza come una statua greca…
Daniela: “Macchè, per me è solo il corpo di mio marito. Seguiamo un percorso di tatuaggi comuni, mica lo facciamo per gli altri. Lo sai che una volta Marco mi ha fatto leggere un tuo articolo in cui te la prendevi con i calciatori che si esibiscono con le veline e se ne fregano della violenza negli stadi. Era arrabbiato. Gli ho detto: anche a me dà fastidio, però c’ha ragione. Noi due all’Hollywood non ci siamo mai stati in vita nostra”.
Marco: “Quando voi gridate ‘Tutti pazzi per Materazzi’ io sono orgoglioso ma poi torno a casa, mangio latte e biscotti, sono normale. Invece mi fanno impressione certi ragazzini. Ho visto in tv quelli della primavera del Milan. Gli chiedevano: perché vuoi diventare un campione? E loro: per la macchina grossa e le veline. Ma guarda come sono ridotti, penso io che ho vinto un mondiale e ho vissuto solo per il calcio da quando avevo due anni”.

E’ vero che nello spogliatoio di Berlino avete gridato “faccela vedé” alla Melandri?
“Boh, non ricordo molto. Sono astemio ma m’ero ingoiato tre birre dello sponsor. So di aver tirato un gavettone al presidente Napoletano. Per fortuna l’ha presa bene”.

E adesso lo scudetto. Ce l’hai chiaro che un anno così nella vita è irripetibile?
“Sai che ti dico? Io al momento giusto comprerò un’Harley Davidson e partirò con Daniela. Tra noi c’è un patto: metà vita io, metà vita lei. Lo rispetterò. Quando in tasca non avevamo neanche i soldi per la benzina si fantasticava: e se vincessimo la lotteria? Vorremmo fare la stessa vita, solo con più sfizi. Un mese in America al posto di una settimana a Riccione. E’ quel che faremo l’estate prossima. Ma anche a Riccione ci divertivamo lo stesso”.

Matrix, nelle tue ali c’è anche una fede?
“Noi siamo credenti, molto. Ma non praticanti. Non riesco a vedere cosa c’è dietro alla Chiesa, ci avverto della falsità”.

E’ tua mamma l’angelo di questa fede?
“Certo, la mamma è un angelo. Vieni, ti faccio vedere una foto. Io sono alto 1 metro e 94. Questo è il gol alla Repubblica Ceca. L’hanno calcolato: 2 metri e 70. Volare con la testa sopra la traversa non è facile. Neanche il gol alla Francia è stato così. Chi mi ci ha portato lassù, secondo te?”.

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