La mia visita in casa Olmert

giovedì, 29 novembre 2007

olmert

La conferenza di Annapolis per la pace in Medio Oriente non è fallita come in tanti prevedevano. Anzi. Ha partecipato pure la Siria, separando il suo destino da quello dell’Iran. E la prima conseguenza, all’indomani di Annapolis, è stata la concordia ritrovata in Libano sul nome di un possibile presidente della repubblica riconosciuto dagli schieramenti che rischiavano di precipitare in una nuova guerra civile. Festeggio il lieto evento raccontandovi un aneddoto sulla mia recente visita in casa Olmert, a Gerusalemme. L’articolo è su “Repubblica” di oggi.

Il manifesto riproduce, affiancate, le due bandiere d’Israele e di Palestina. Intorno, come una cornice rettangolare, vi compaiono in fila un’altra quarantina di bandiere.
Il premier israeliano Ehud Olmert, rilassato, in t-shirt, lo ha srotolato sul tavolo al momento dei saluti, lo scorso venerdì 2 novembre, quando mi ha ricevuto insieme all’amica comune Manuela Dviri nella sua residenza di Gerusalemme.
Un’ora di visita privata e informale, i cui contenuti resteranno quindi doverosamente “off the records”, come recita il codice giornalistico. Ma il dettaglio innocente di quel commiato merita invece di essere reso pubblico perché forse racchiude lo “spirito di Annapolis”, cioè lo stato d’animo con cui due leader sovraccarichi di responsabilità, e accomunati nella debolezza, affronteranno da qui a un anno l’ultimo tratto della loro carriera.
Sorseggiando succo di melograno, in un salone che mantiene il carattere della tradizionale sobrietà israeliana -alle pareti i paesaggi dipinti dalla moglie Aliza- s’era scherzato sulla conferenza stampa in cui Olmert pochi giorni prima aveva reso pubblico il suo tumore alla prostata, per fortuna non grave. Una scelta di trasparenza apprezzata dall’opinione pubblica, tale da regalargli un momentaneo sussulto negli indici di popolarità.
Che coincidenza, pure il suo interlocutore palestinese Mahmud Abbas, detto Abu Mazen, soffre di analoghi problemi sanitari. Né si può dire che gli arrida un gradimento superiore tra i palestinesi. Sarà forse per reciproca consapevolezza della loro evidente precarietà, ma sembra che i due capi degli israeliani e dei palestinesi si piacciano, si intendano. Hanno sviluppato una complicità che li spinge talvolta ad anticipare l’un l’altro le bordate polemiche che il dovere d’ufficio impone loro di scagliarsi addosso ogni tanto. E si frequentano forse più di quanto non appaia ufficialmente.
E’ per spiegarci la natura della loro relazione che Olmert, alla fine del colloquio, ci regala l’aneddoto. “Lo vedete questo manifesto? Me lo ha portato in dono Abu Mazen l’ultima volta che è venuto qui. Prima che potessi dir nulla, mi ha chiesto: ‘Ehud, lo sai che cosa vuol dire? Al centro ci siamo noi, Israele e Palestina. Tutto attorno trovi le bandiere delle nazioni che –se firmerete la pace con noi- a loro volta smetteranno di esservi nemiche. Allora, ti piace il mio regalo?’”.
A questo punto Olmert sorride e ci conduce subito accanto, nella minuscola stanza di lavoro della moglie Aliza. “Sto ripetendo con voi la stessa cosa che ho fatto con Abu Mazen, guardate”. Alla parete troviamo appeso lo stesso identico manifesto con le bandiere dei due popoli in cerca di pace, e intorno le altre che minacciano l’esistenza d’Israele. Solo che in mezzo Aliza ci ha incollato le fotografie dei loro quattro nipoti. Adesso Olmert racconta la sua risposta a Abu Mazen: “Grazie, Mahmud. Come vedi, non solo conoscevamo già il significato del tuo bel regalo. Ma in casa lo apprezziamo a tal punto da averci inquadrato al centro i ritratti dei nostri bambini, cioè quanto abbiamo di più caro. Per non dimenticare mai a quale scopo siamo impegnati l’uno insieme all’altro”.
Martedì scorso, quando ho visto ad Annapolis quei due leader precari stringersi la mano sotto lo sguardo compiaciuto di Bush, confesso che il primo pensiero non è andato al manifesto appeso nella stanza di Aliza Olmert. Troppo forte era la somiglianza tra la scena del Maryland e l’altra fotografia, ormai sbiadita, scattata quattordici anni fa sul prato della Casa Bianca: allora c’erano Rabin, Arafat e in mezzo Clinton. Sappiamo com’è andata a finire tragicamente, la prima volta.
Poi mi sono ricordato la cornice di bandierine attorno ai simboli dei due contendenti. In fondo, alla solenne promessa di pace di Annapolis presenziavano 49 delegazioni. Fra le quali ce n’erano già 16 di paesi arabi. D’accordo, molte meno di quelle auspicate dal manifesto di casa Olmert. Però come sottovalutare, tra le altre, la storica prima volta della Siria a un tavolo di negoziato? Sarà proprio un caso se, all’indomani del vertice sul Medio Oriente, pare raggiunto un accordo tra antisiriani e filosiriani sul nome del nuovo presidente della repubblica libanese? E allora mi sono detto: chissà, talvolta la debolezza politica dei leader può trasformarsi in risorsa, se non addirittura in virtù.
Se davvero nel 2008 gli impopolari Olmert e Abu Mazen, ma con loro lo stesso Bush anatra zoppa, riuscissero a srotolare sul tavolo un altro pezzo di carta -quello della pace definitiva- la reazione dei loro due popoli sarebbe certamente favorevole: se non altro a provarci. Nonostante l’odio che alligna in Medio Oriente, sono certo che la maggioranza dei nonni, dei padri e delle madri, sarebbe pronta a incollare i volti dei loro bambini dentro a una cornice di bandiere chiamate a deporre le armi.

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