Benedetto XVI, la speranza di un pessimista

mercoledì, 5 dicembre 2007

ratzinger

Vi propongo questa mia riflessione sulla nuova enciclica del papa. Pubblicata oggi su “Vanity fair”.

“Spe salvi facti sumu” significa: “Nella speranza siamo stati salvati”. Ed è in effetti suggestivo il percorso di Benedetto XVI che procede da una prima enciclica sull’amore a quest’altra dedicata alla speranza. Vuol dire che il papa tedesco, teologo e filosofo, riesce a protendere uno sguardo pastorale sull’umana normalità delle nostre vite: tutte, senza eccezioni, alimentate da quell’energia intima che avvertiamo sempre come speranza.
Speriamo di stare meglio. Speriamo di vincere il dolore. Speriamo di oltrepassare la morte. Speriamo che i nostri figli abbiano una vita felice.
Ha buon gioco il papa nel constatare la caducità delle speranze deluse dalle grandi ideologie della modernità. Ormai chi crede più nel progresso come fonte certa di felicità? Chi crede nella liberazione dell’uomo realizzata attraverso un rovesciamento dei rapporti di produzione? Quanti di noi affidano volentieri il proprio destino a scienziati e medici poco comprensibili, iperspecializzati ma sempre meno capaci di cura?
Saremmo intellettualmente disonesti se non cogliessimo i buoni argomenti di Joseph Ratzinger nella sua critica alla mercificazione di ogni aspetto della vita umana, che diffonde angoscia esistenziale e annienta col nichilismo le culture fondate su una razionalità solo mondana. Ma allora perché la sua insistente denuncia dell’illuminismo occidentale e la sua polemica contro la scienza contemporanea –che tornano nella “Spe salvi” dopo la controversa lezione di Ratisbona- suscitano ogni volta in noi sospetto e distanza?
Cerco di spiegarmelo così. Il papa cattolico è naturalmente chiamato a ricordare ai fedeli quale sia l’autentico significato della speranza cristiana. Una speranza diversa perché trascendente. In sostanza, si tratta della speranza nella risurrezione dei morti. Non sei davvero cristiano se dubiti che Gesù sia risorto e che anche tu essere umano, proprio tu, potrai risorgere nella vita eterna. Come è noto, tra gli stessi battezzati che dichiarano di aderire alla Chiesa di Roma scarseggia ormai la fede nella risurrezione dei morti, e ciò indebolisce la speranza cristiana. La diffusa incredulità nella vita eterna –dunque nel Giudizio universale che implica l’esistenza di un inferno e di un purgatorio- alimenta in papa Ratzinger due tipi di reazione: un allarmato pessimismo sul futuro della presenza cristiana qui, nell’occidente secolarizzato; e un istinto di distacco e superiorità clericale nei confronti delle culture mondane a loro volta in crisi. Pessimismo e senso di superiorità che lo portano a disdegnare quell’evoluzione storica dell’umana speranza da cui per fortuna anche la Chiesa è stata trasformata.
Come dimenticarlo? Vi fu un tempo in cui la speranza predicata dalla Chiesa era tutta e solo nell’aldilà. Lo schiavo non si ribellasse alla sua naturale inferiorità. La donna, il selvaggio, l’infedele accettassero silenziosi il ruolo che l’ordine costituito e la dottrina assegnavano loro. Unica speranza ammessa: la certezza che la giustizia non è di questo mondo. Anche se nel frattempo, dalla conversione dell’imperatore Costantino fino al rifiuto occidentale contemporaneo della religione di Stato, la Chiesa stessa dispensatrice di speranza cristiana s’identificava col potere costituito.
Benedetto XVI ha forse nostalgia del tempo medievale in cui uomini derelitti e privi di speranze terrene si convincevano dell’imminenza del Giudizio universale, cercavano nel pellegrinaggio armato la redenzione in un feroce e ispirato clima apocalittico? Forse è per questo che fra i Dottori della Chiesa citati nell’enciclica sulla speranza troviamo anche Bernardo di Chiaravalle, il predicatore delle crociate, teorico del “malecidium”, cioè dell’uccisione del nemico come azione benefica per la sua stessa anima?
Ormai i “mea culpa” di Giovanni Paolo II sono un lontano ricordo, anche se sono passati solo sette anni dal Giubileo del bimillenario cristiano. Sembra dire, il suo successore: l’illuminismo e il marxismo passano, noi siamo sempre qui. Ma cosa sarebbe la Chiesa di oggi senza le aperture in essa determinate dallo scontro con l’illuminismo e il marxismo, in cui spesso s’è ritrovata soccombente? Sarebbe più o meno giusto, progredito, un mondo in cui la Chiesa non fosse stata costretta a confrontarsi con il pensiero critico? No, io non ho nessuna nostalgia del tempo in cui bisognava accontentarsi di sperare nell’aldilà.

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