Immigrati: si può sceglierli?

sabato, 8 dicembre 2007

“Ciao papà, sono Christian”
“Ah, Christian, come stai?”
“Bene, bene”.
“Hai fatto un buon viaggio?”
“Sì, nessun problema, tutto bene”
Un giovane africano parla da una cabina telefonica. Racconta al padre della sua nuova vita da immigrato: è ospite di amici, s’è iscritto all’università.
Ma è tutto falso: vive di elemosina, clandestino, braccato dalla polizia.
Un video duro, senza fronzoli, realizzato in Svizzera con il contributo della Commissione di Bruxelles. Si rivolge ai paesi dell’Africa occidentale per scoraggiare l’immigrazione illegale attraverso il Mediterraneo e il messaggio è chiaro: non venite in Svizzera, il sogno di una vita migliore può trasformarsi in incubo.
È da sempre l’aspirazione di tutti i governi: scegliersi i propri immigrati.
Una politica di controllo dei flussi che porta i governi a prendere decisioni anche un po’ ciniche per difendere gli interessi nazionali.
Così la Svizzera apre volentieri le frontiere quando a chiedere l’ingresso sono professionisti altamente qualificati, come i richiestissimi matematici e ingegneri indiani, oppure i “ricchi che vivono di rendita”.
Ma anche l’Europa punta a selezionare l’immigrazione per imporre una certa gradualità negli arrivi, in modo da evitare tensioni e rispondere alle richieste del proprio mercato del lavoro.
Dalla Germania che ha sempre reclutato la manodopera attraverso accordi bilaterali, come quello del 1961 con la Turchia, alla Francia, dove oggi una “immigrazione mirata e selezionata” è l’obiettivo di Sarkozy che ha introdotto il test del DNA per i casi di ricongiungimento familiare.
Nella lunga storia dell’immigrazione, l’esigenza di filtrare l’ingresso alle frontiere ha spesso imposto scelte difficili.
È il 1950 quando Ben Gurion fa approvare la “Legge del ritorno” che prevede per ogni ebreo della Diaspora il diritto di tornare in “Eretz Israel” con lo status di cittadino. Eppure per i 300 mila ebrei residenti in Marocco vince la linea della “immigrazione selettiva”: il “permesso di immigrare” è concesso solo ai giovani sani e con un mestiere. Anche perché allo Stato mancano i mezzi per assistere vecchi e malati dopo la prima ondata migratoria composta quasi totalmente dai sopravvissuti ai campi di sterminio.
Questo non significa che governare i flussi migratori autorizzi il venir meno delle regole di civiltà fondamentali nei confronti di chi è riuscito a varcare, magari avventurosamente, una frontiera.
Gli americani, durissimi nel controllare gli ingressi privilegiando lavoratori super specializzati e “cervelli”, sanno essere pragmatici con i clandestini presenti sul loro territorio. Nello Stato di New York, ad esempio, gli irregolari possono ottenere la patente presentando il passaporto del paese d’origine: “così almeno imparano il codice della strada e sono costretti a fare un’assicurazione”.
Una “realpolitik dell’immigrazione” seguita anche dalle banche.
Ai sette milioni di clandestini che lavorano negli Stati Uniti è concesso di aprire un conto corrente e dal 2006, grazie alla Bank of America, possono richiedere la carta di credito: basta versare 99 dollari per ottenere un fido di 500.
Unico neo: il tasso d’interesse altissimo, quasi il 22%.

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