La Superga degli operai

domenica, 9 dicembre 2007

ThyssenKrupp

Vi propongo questo mio articolo, pubblicato oggi su “Repubblica”.

La strage senza fine dell’acciaieria ThyssenKrupp rappresenta il culmine di un tragitto d’umiliazione della Torino operaia. Per la colpevole incuria da cui è scaturita, immagino verrà ricordata nella memoria popolare come l’esito ultimo della sconfitta dell’ottobre 1980, quando fu intrapreso l’allontanamento di decine di migliaia di lavoratori dagli stabilimenti Fiat. Furono decine i cassintegrati dell’epoca che si tolsero la vita. E da allora la condizione operaia viene simbolicamente percepita come condanna all’infelicità, destinata a essere vissuta in un ambito del tutto privato. Da sopportare grazie al sostegno familiare, ma senza eccessive speranze di miglioramento.
Il rogo di giovedì scorso è molto più di un incidente sul lavoro. E’ una Superga operaia maturata nell’isolamento sociale. E’ il segnale della decadenza del lavoro di fabbrica a pratica considerata marginale, benché la produzione industriale rappresenti tuttora l’asse portante della nostra economia, restando l’Italia –insieme alla Germania- il paese europeo a più forte composizione operaia.
Nel nostro immaginario mutilato la fabbrica è ormai relegata a luogo da terzo mondo. La produzione di acciaio, in particolare, viene considerata prerogativa da asiatici. Quasi che le nostre automobili, i ponti, i grattacieli della post-modernità, potessero farne a meno. E invece neppure la robotica e l’automazione degli impianti avveniristici, in cui si producono i nostri beni di consumo durevole, prescinderanno mai dal ferro e dal fuoco.
L’officina e la fonderia sopravvivono –nascoste e frammentate- nel retrobottega della nostra società luccicante. Popolate da un nuovo proletariato di individui destinati alla fatica fisica che si contano però a milioni.
Scandaloso è il divario fra la prosperità dei fatturati ThyssenKrupp –con utili nell’ordine di miliardi di euro- e la costrizione agli straordinari per incrementare buste paga troppo magre, o addirittura per allontanare la minaccia di licenziamento. Col senno di poi apprendiamo che la multinazionale tedesca –in ritardo nelle consegne- aveva preteso uno sforzo produttivo eccezionale da uno stabilimento prossimo alla chiusura nel quale aveva allentato i doverosi controlli di manutenzione e sicurezza. A mezza voce si parla di ispettori del lavoro ex consulenti dell’azienda, o addirittura di ispettori esautorati perché zelanti.
Ironia della sorte: un paese impaurito che si dilania sul tema della sicurezza, sopporta come inevitabile necessità economica l’insicurezza nei luoghi di lavoro. Sicurezza pubblica e insicurezza privata: la prima può causare la disgrazia dei politici, la seconda sfiora appena la reputazione degli imprenditori. Faceva impressione, nei due giorni successivi alla tragedia di Torino, notare lo scarso rilievo ad essa dedicato dal quotidiano della Confindustria.
Stavolta invece il terzo mondo siamo noi. Costretti a toccare con mano uno degli effetti meno citati della globalizzazione: quando la direzione dell’azienda –sia pure una multinazionale avanzata sulla frontiera della tecnologia e della governance, come la ThyssenKrupp- risiede distante dallo stabilimento produttivo, è più frequente che si allentino i controlli di sicurezza e la correttezza nei rapporti sindacali. Occhio non vede, cuore non duole. Anche il ricambio degli estintori ha un costo, tanto più se quel lontano stabilimento estero è destinato alla chiusura.
Venerdì scorso su queste pagine Luciano Gallino ha ben raccontato le difficoltà e i rischi che neppure le più moderne tecnologie possono eliminare dalla produzione dell’acciaio. Caratterizzata da imprevisti frequenti, turni a ciclo continuo, condizioni ambientali disagevoli. Implicando dunque una manodopera esperta, sempre vigile, dotata di professionalità elevata.
Chiunque abbia visitato un’acciaieria ne esce provando uno speciale rispetto per i lavoratori che trascorrono lì dentro tanta parte delle loro vite. Come gli operai di Torino, morti o in agonia, che supplivano alla carenza di personale prolungando il turno di notte, consolandosi magari col pensiero di poter comprare i regali di Natale ai loro figli, ma afflitti dall’incubo di perdere presto il posto di lavoro.
Nella Torino attonita che oggi li piange si riconosce l’ingiustizia della retrocessione. Una società dell’acciaio relegata ai margini dalla società virtuale che s’illude di poterne prescindere, rintracciando altrove le fonti del suo benessere. La tragedia della Torino operaia ne viene perciò moltiplicata. Orientati da tanti economisti a indicare il sindacato tra le cause della scarsa crescita del paese, scopriamo con imbarazzo i passi indietro che la sua debolezza strutturale può determinare nella civiltà del lavoro.

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