Caramel, buon anno alle donne

mercoledì, 2 gennaio 2008

buon anno

Gli auguri bastardi per un felice 2008 arrivano dalla sponda sud del Mediterraneo. Eccoli, nel mio articolo che esce oggi su “Vanity fair”.

Nella luce inconfondibile di Beirut, ho assaporato il piacere di farmi prendere in giro dalle donne. Sei donne capaci di esprimere con invidiabile complicità una grazia languida che incanta quando si lasciano spiare, nei preparativi dell’amore e nell’invincibile fragilità. E allora, disposti finalmente ad apparire quel che siamo di fronte a loro –cioè ridicoli, come il bel poliziotto libanese che ogni giorno le contempla e le corteggia in estasi attraverso le veneziane del salone di bellezza- retrocediamo fino all’erotismo infantile, alla reminiscenza del nostro primo incontro con la femminilità. Rintracciandola nel pentolino in cui zucchero e limone si sciolgono in forma di caramello da appallottolare prima che indurisca: la crudele e profumata ceretta da depilazione, evocatrice di strappi dolorosi che ci regaleranno però gambe e inguine di liscia sensualità.
Una verginità da riparare, un adulterio cui ribellarsi, una menopausa da sopportare, l’omosessualità da condividere, e la vecchiaia, e la follia, e il rimpianto…
Fate come me. Accettate il ruolo del guardone e piazzatevi di fronte allo schermo per scoprire il talento di Nadine Labaki. Possibile che la trentatreenne attrice protagonista di “Caramel”, ne sia anche la regista? Possibile: con quegli occhi da Sofia Loren lei è Jayale, la titolare di un salone di bellezza, innamorata di un mediocre uomo sposato neppure meritevole di un’inquadratura.
Dedicatasi finora alla regia di videoclip per popstar mediorientali, Nadine Labaki ha costruito il suo delizioso gineceo mediterraneo reclutando al suo fianco cinque esordienti non professioniste. La musulmana Nisrine, con l’imene da ricucire in vista del matrimonio. Rima, sciampista lesbica dallo charme inaspettato. Jamale, cinquantenne ancora in cerca del successo. La sarta Rose, sfiorita con dolcezza. E l’anziana sorella Lili, ammattita con metodo.
A loro dobbiamo un ritratto intimo di sopravvivenza femminile, nella ricerca del maschio e nel conflitto col maschio; ma anche l’incontro naturale fra comunità libanesi diverse , cristiani e musulmani, sopravvissuti a una guerra civile durata quindici anni, e scatenatasi quando Nadine Labaki ne aveva compiuto uno soltanto.
Godendovi questa deliziosa commedia araba, recitata in arabo e girata nel 2006 in una città destinata pochi mesi dopo a subire nuovi bombardamento israeliani, e nuove minacce di guerra civile- vi succederà di sentirla familiare. Ci troverete dentro il cinema italiano –“Pane e tulipani”, ma perfino “Una giornata particolare”- e poi certi inconfondibili caratteri francesi, oltre che naturalmente lo spagnolo Almodovar.
Buon segno, la contiguità che avvertiamo. Quel caramello che vien voglia di leccare, e la raffinatezza della regista Labaki, e l’autenticità popolare dell’attrice Labaki, e l’ironia e la civiltà femminile sono la testimonianza di quanto profondo resti l’intreccio levantino fra le due sponde del Mediterraneo. Il Libano contemporaneo, così vitale, in cui va fortissimo la chirurgia estetica, ma dove il modello della femminilità occidentale viene reinterpretato in superba autonomia, ha saputo produrre (con la Francia) un film capace di superare la censura e avere successo in tutto il Medio Oriente.
Promette bene per il 2008 un cinema mediterraneo in grado di farci sentire l’emozione ravvicinata del destino comune. Né stupisce che protagoniste di una tale, storica novità siano le giovani donne emancipate di una generazione irriducibile alla schiavitù di una guerra già vissuta troppo da vicino.
Il mio augurio per l’anno nuovo alle lettrici di “Vanity fair”? Che una libanese di mondo come Nadine Labaki abbia voglia di visitare la retrovia italiana, cioè la nazione mediterranea in cui si dà per scontato che le donne dello spettacolo e dell’informazione televisiva siano tutte zoccole raccomandate. Ci vorrebbe l’artefice di “Caramel” per narrare con grazia le nostre medievali Vallettopoli (dalla Gregoraci a Lele Mora fino a Saccà e dintorni), inconcepibili altrove per la semplice ragione che nei luoghi a noi circostanti le donne di talento si sarebbero già ribellate alla maldicenza, mentre qui paiono rassegnate all’umiliazione pubblica.

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