Obama-Clinton, la sfida tra il sogno e l’establishment

mercoledì, 9 gennaio 2008

obama clinton

Tiro un sospiro di sollievo: l’articolo scritto lunedì scorso, nel pieno dell’onda mediatica sul “fenomeno Obama” che avrebbe eliminato Hillary Clinton, tiene eccome anche dopo la rivincita di quest’ultima nel New Hampshire. L’ha pubblicato oggi “Vanity fair”.

Non abbiamo la più pallida idea di chi potrà essere tra un anno l’inquilino (o l’inquilina) della Casa Bianca, cioè l’uomo (o la donna) più potente del mondo. L’incertezza è l’unica nostra attuale certezza, il che la dice molto sulla stagione di passaggio vissuta dagli Usa al tramonto dell’era Bush.
Volendo essere pignoli, possiamo aggiungere un altro tassello: chiunque sia il nuovo presidente degli Stati Uniti partirà con l’handicap di una minore influenza sul pianeta rispetto ai suoi predecessori. Ciò a causa della crescita delle potenze asiatiche, della ritrovata unità europea, dell’assalto terroristico di matrice islamica. E dell’eredità politica sciagurata che gli verrà in consegna dall’attuale presidente.
Gli storici parlano di declino dell’egemonia americana. Gli economisti si chiedono se gli Usa siano ancora una locomotiva di crescita o se invece convenga agli altri paesi separarne quel tanto che possono il loro destino. Gli elettori statunitensi come al solito pensano ad altro: casa loro è già di per sé il mondo. Minacciato, certo, dal nemico terrorista, dalle tigri asiatiche e dall’inadeguatezza della propria leadership.
La notizia dei caucus in Iowa (scrivo prima di conoscere il risultato del New Hampshire) è che gli elettori democratici, repubblicani, indipendenti, raddoppiano. E raddoppia in particolare la partecipazione giovanile alla scelta dei candidati presidenti. Ciò rende la gara più appassionante e ancor meno prevedibile di quanto già non fosse. Regalando probabilità concrete di successo a un personaggio come Barack Obama, il senatore afroamericano che vuole riunire l’America oltre le appartenenze etniche e contro l’establishment. Intanto è riuscito a conquistare uno Stato quasi interamente bianco, oltre che il palcoscenico dei mass media. Né va sottovalutata la simpatia manifestata nei confronti di Obama dall’altro vincitore delle primarie in Iowa, il pastore evangelico repubblicano Mike Huckabee. Entrambi hanno catalizzato consensi presentandosi come alternativa al blocco di potere dominante a Washington. Hanno declinato in chiave populista o religiosa il tema sociale delle disuguaglianze. L’ingiustizia dei redditi stratosferici dei manager. L’ambiguità di rapporti fra politica e affari.
Se Mike Huckabee difficilmente potrà consolidare il suo primo exploit, diverso è il caso di Obama che da fenomeno mediatico pare in grado di trasformarsi in fenomeno elettorale. A condizione che si mantenga nei prossimi caucus la straordinaria partecipazione al voto di nuovi elettori solitamente astensionisti.
La novità politica anticipata nella tortuosa selezione delle candidature è una frattura trasversale interna ai democratici e ai repubblicani. Se quattro anni fa si poteva grossolanamente separare l’”America profonda” -conservatrice, religiosa, nettamente repubblicana- da un’America costiera più aperta, liberal, prevalentemente democratica, oggi è cambiato. I candidati degli uni e degli altri si suddividono piuttosto tra outsiders e rappresentanti dell’establishment.
Con abile dosaggio di marketing, Hillary Rhodam ha fin qui dissimulato la sua carica di cambiamento dovuta al suo essere donna –la prima donna candidata al vertice della politica mondiale, finalmente- dietro all’importanza del cognome acquisito col matrimonio. Essere la moglie di Bill Clinton vuol dire rassicurare chi non cerca avventure ma continuità d’esperienza presidenziale. Parlare il linguaggio del sociale, soprattutto promettendo l’estensione della copertura sanitaria, ma dall’interno di un potere consolidato. Sulla carta, resta ancora la miscela più convincente. Ma l’irruzione sulla scena di una forte suggestione emotiva come Obama riapre i giochi interni al partito democratico.
Più faticoso è immaginare chi possa assumere fra i repubblicani un ruolo credibile di continuità, perché i Bush non hanno eredi diretti. Forse il veterano John McCain si affermerà come revival del mitico Ronald Reagan? E’ presto per dirlo.
L’imprevedibilità senza precedenti della corsa 2008 alla Casa Bianca, da un lato ci spinge ad ammirare un’altra volta la democrazia americana (non a caso le abbiamo copiato le primarie!); dall’altro suggerisce il dubbio che un candidato davvero in grado di sovrastare gli altri non sia ancora comparso sulla scena.

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