La decadenza degli Agnelli

mercoledì, 16 gennaio 2008

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Questo articolo viene pubblicato oggi da “Vanity fair”.

Era giusto e naturale che dopo un secolo anche la dinastia Agnelli conoscesse il suo declino. Del resto la Fiat stessa ha ritrovato buona salute grazie a un management capace di disincagliarla dal mito monarchico coltivato nel recinto del capitalismo familiare. Così va il mondo.
Ma se a cinque anni dalla morte di Giovanni Agnelli assistiamo a un’altra vicenda sgradevole e dolorosa –dopo quella che già coinvolse Lapo Elkann- viene da chiedersi con rispetto un perché. E temo che la risposta si trovi in quel concetto improprio di monarchia appiccicato negli anni a una famiglia di imprenditori che rischia, speriamo di no, la china imbarazzante dei Savoia.
Grondano infelicità le interviste rilasciate da Margherita Agnelli, la figlia dell’Avvocato, dopo che sette anni fa suo fratello Edoardo si tolse la vita gettandosi dal viadotto di Fossano. Risolveremo l’enigma constatando che –come spesso succede ai re- Giovanni Agnelli non ha trovato il tempo e il modo di essere anche un buon padre? Troppo facile.
Di certo la controversia ereditaria che contrappone Margherita alla madre e ai figli sta avvelenando una celebrazione di per sé delicata, cui nuocciono sia la nostalgia sia la cortigianeria. Ci sono di mezzo, ingombranti, la Torino costretta a riscoprire gli operai come protagonisti di un’ingiusta umiliazione, simboleggiata dal rogo della Thyssenkrupp; e più in generale un’Italia resa ormai consapevole dei danni arrecati all’economia dagli eccessi di protezione concessi al suo capitalismo.
Non ho ancora visitato la mostra del Vittoriano dedicata all’uomo enfaticamente definito “protagonista del Novecento”. Sono sicuro che sarà bellissima, come sono grati i ricordi che conservo degli anni in cui ho lavorato alla “Stampa”, conoscendolo nella sua veste di editore. Ma credo di onorarne l’intelligenza se evito di aggiungermi al coro dell’aneddotica melensa e mondana, alla ressa dei testimoni del suo speciale potere.
A un lustro dalla sua scomparsa, la figura dell’avvocato Agnelli merita il rispetto di un sereno riesame critico. E con lui l’idea da troppi emulata come modello da perseguire: che un imprenditore, per avere successo in Italia, debba rivestire funzioni pubbliche esorbitanti il raggio d’azione della sua azienda. Non tanto per assumere una funzione civile o magari –come spesso accade negli Stati Uniti- un progetto filantropico. Ma, invece, per detenere la signoria del consenso.
Il calcio, il giornalismo, le arti, l’eleganza, la politica, la diplomazia, per l’Avvocato non sono stati solo le passioni collaterali tipiche di tanti altri capitani d’industria europei e americani. In vari frangenti della storia della Fiat sono stati sapientemente adoperati come copertura fumogena degli insuccessi aziendali, se non addirittura come fattori distorsivi del mercato. Forse non basta dire che Giovanni Agnelli desiderava piacere agli italiani, e sapeva affascinarli. In verità, il modello di potere allestito dall’Avvocato con la A maiuscola implicava che lui dovesse cercare una relazione monarchica con la società circostante. La Fiat, temo, ne ha tratto più danni che vantaggi. L’effetto imitativo si è ripercosso negativamente sui comportamenti di altri imprenditori nostrani, bravi più a curare l’immagine e a blindare l’organigramma che a fare profitti. Quanto agli effetti sulla generazione familiare successiva, sono sotto gli occhi di tutti.
C’è un’eredità Agnelli oggi sottoposta al vaglio del tribunale, della quale mi disinteresso. Ma c’è poi un’eredità pubblica di tale rilevanza che merita di essere studiata sfuggendo l’agiografia. Lo ricordo come un uomo che nella durezza della vita di fabbrica, nel mondo del lavoro, sentiva di avere radici. Al di là dei forti sentimenti che ispirava, perché non dovremmo valutarlo con il metro dell’imprenditore?

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