Attenti alla rivolta degli operai

sabato, 19 gennaio 2008

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Dopo i metalmeccanici, i portuali. Questo mio articolo è uscito oggi su “Repubblica”.

“Facciamo notizia solo quando ci scappa il morto”, lamentano milioni di operai italiani retrocessi alla soglia della povertà. Purtroppo hanno torto. Per fare notizia, bisogna che la morte sul lavoro aggredisca l’aristocrazia operaia: come i giovani diplomati della Thyssenkrupp, la seconda generazione dei meridionali immigrati a Torino; e come i lavoratori esperti soffocati ieri nella stiva 4 della nave “World trader” a Porto Marghera.
Operai accomunati pure dalla consuetudine al lavoro notturno che vale forse qualche maggiorazione in busta paga, ma li relega ancor più ai margini della nostra consapevolezza.
Solo quando il fuoco e il veleno ghermiscono categorie che pensavamo garantite, ci interroghiamo. Perché Paolo Ferrara e Denis Zanon sono stati calati in una camera a gas? Perché il respiratore di pronto soccorso era privo d’ossigeno? Perché a Torino gli estintori non venivano ricaricati? Perché vigevano standard di sicurezza inferiori rispetto a linee analoghe dello stabilimento tedesco? Perché l’acciaieria Ilva di Taranto, detentrice del triste record italiano delle morti sul lavoro, ha applicato solo di recente un protocollo aziendale che in effetti riduce di un terzo gli incidenti?
La risposta si trova nella debolezza contrattuale dei lavoratori: spesso il sindacato, pur di salvaguardare l’occupazione, ha sopportato deroghe alla priorità assoluta di una sicurezza che costa investimenti e necessiterebbe di manager sensibili.
Adesso si sono bloccati, in sciopero, i portuali di tutta Italia. Categoria orgogliosa, già frantumata dalla ristrutturazione della logistica in cui s’è dissolta la capacità di ricatto che invece fa la forza dei camionisti. Perduti i privilegi delle antiche compagnie, suddivisi in una rete di ditte appaltatrici, fra loro c’è chi continua a strisciare in cunicoli alti 90 centimetri, o a essere calato giù dai boccaporti dentro stive profonde, insidiose come miniere. Dove una fiamma ossidrica può accendere l’inferno: capitò il 13 marzo 1987 alla MecNavi, un cantiere del porto di Ravenna. Nella stiva della gasiera “Elisabetta Montanari” persero la vita tredici operai. Il più giovane era al suo primo giorno di lavoro nero. La tragedia della MecNavi richiamò l’attenzione dell’Italia sull’allora inedita piaga del precariato, con la fretta che impone di rinunciare alla prudenza. Ma allo choc seguirono processi lentissimi, condanne miti, risarcimenti tardivi, la ricusazione dei sindacati come parte civile. E anche allora i legali dell’impresa si trincerarono sulla linea difensiva che più offende i colleghi e i familiari delle vittime: tutta colpa della leggerezza dei lavoratori.
Vent’anni dopo condizione del lavoro operaio in Italia è peggiorata, anziché migliorare. E la produttività si è imposta come esigenza prioritaria rispetto alla tutela della vita umana. Al di fuori delle residue concentrazioni industriali, per esempio nell’edilizia, i morti operai vengono di fatto considerati di serie B. Se privi di contratto regolare, difficilmente le loro famiglie ottengono sostegno economico. Ma adesso che la prevenzione perde colpi anche nei luoghi di produzione in teoria più tutelati, avvertiamo i guasti profondi che l’insicurezza –come una metastasi- diffonde in tutto il mondo del lavoro.
La coincidenza fra lo scandalo delle morti bianche, la perdita di potere d’acquisto dei salari, il ritardo nel rinnovo dei contratti, la metà delle famiglie italiane che vivono con meno di 1900 euro al mese, sta innescando un clima di conflitto diverso dalle stagioni del passato. La politica ha da tempo interrotto ogni relazione con la fabbrica, resta distante a leccarsi le ferite. Insensibile. La lotta di classe figura come un retaggio anacronistico, inservibile, sovrastata dai flussi della globalizzazione. Ma ciò non garantisce più la tanto invocata pace sociale. Il nuovo conflitto operaio scatenato dall’insicurezza e dai bassi redditi, ma più ancora dall’umiliazione inflitta ormai a due generazioni di lavoratori manuali, dall’indifferenza che respirano intorno a sé, può avere esiti imprevedibili. Non stiamo ritornando all’Ottocento luddista. Se gli operai non otterranno l’udienza che gli è dovuta, se il governo non riuscirà ad avviare una significativa redistribuzione delle risorse, la nostra società affluente farà i conti con una rabbia difficile da instradare nei binari della democrazia e della contrattazione sindacale.
Ricordo, nei giorni immediatamente successivi al rogo della Thyssenkrupp, un calcolo numerico aberrante diffuso dal leghista Mario Borghezio: nei soli primi tre mesi del 2007 si sono contate più vittime del lavoro di quanti non siano stati tutti i morti degli anni di piombo, stragi comprese. Ragionare così sarebbe barbaro. Ma devo chiedermi cosa possa scattare in delle giovani menti disperate, di fronte a un’ingiustizia sociale che uccide tutti i giorni, anche quando si potrebbe evitare.

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