Confessione di un reduce del ’68

lunedì, 28 gennaio 2008

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Sull’ultimo numero di “Micromega” ho scritto questa memoria del ’68 con cui considero chiuse, da parte mia, le celebrazioni del quarantesimo.

Reduce? E vabbè (diciamolo così, in romanesco, alla “Verzo” d’antica memoria, per i patiti dello stereotipo) sono un reduce! Reduce di che cosa? Sessantottino? Ex lottacontinuista? Rivoluzionario “au caviar”? Fate voi, dirò sempre di sì. Non so bene di che cosa, ma il sottoscritto Gad Lerner, nato il 7 dicembre del 1954, volentieri si compiace di rivendicare il titolo di cui vengo fregiato da una trentina d’anni.
Avrei potuto rifugiarmi nell’anagrafe: in fondo nel 1968 vivevo una pubertà di cui ho il riguardo di risparmiarvi i dettagli, e solo sul finire di quell’anno misi piede da imberbe ginnasiale nella prima classe del liceo Parini di Milano, da cui sarei emigrato al Berchet. Diciamo che l’ho sfiorato, il ’68.
Vado maluccio perfino come ex di Lotta continua (vi aderii diciottenne nel 1973, e la screanzata dopo soli 3 anni s’era già sciolta) ma ciò non mi impedisce di comparire sempre ai primi posti –da abusivo- nel campionario dei suoi protagonisti.
Dopo essermi doverosamente scusato con chi davvero ha fatto il Sessantotto e con chi davvero ha dato vita a Lotta continua per questa mia abusiva occupazione di ruolo pubblico, passo a spiegare perché non ho mai voluto smentire o minimizzare un’etichettatura generazionale che furoreggia a distanza di decenni.
Non c’è solo il timore di apparire vile puntualizzando troppi distinguo dalla vicenda giovanile in cui ti sei riconosciuto. Molto di più: io voglio esprimere tutta la mia gratitudine nei confronti della stagione più deformata, diffamata, irrisa, manipolata da un’intellighenzia (sia conservatrice, sia comunista) che subì il ’68 come un affronto. Non si tratta solo di riconoscenza personale: è nell’impegno con e per gli altri di allora che ho appreso il senso del comunicare, l’emancipazione da codici linguistici paludati e ossequiosi, la passione per l’inchiesta sociale, l’aspirazione a trasformare la realtà, la ricerca di un bene comune, cui debbo anche la mia fortunata carriera professionale. A quelli che lamentano l’eccessiva presenza di ex sessantottini ai vertici del giornalismo italiano (a parte il fatto che non è vero; a parte che mi ricorda la medesima “denuncia” riferita agli ebrei) rispondo: se ci avete corteggiati, se avete scopiazzato le novità presenti nelle nostre testate, vuol dire che perfino voi siete debitori dell’odiato Sessantotto…
La verità è che stiamo parlando di un movimento e di una stagione di cambiamento che hanno migliorato la vita delle persone dovunque, in Italia e nel mondo. E’ stato un passaggio di redistribuzione più equa dei redditi, di riforme strutturali importanti, di apertura nelle relazioni familiari e sessuali, di acculturazione senza precedenti. Quando gli storici potranno lavorare prescindendo dal rancore provocato da quel sommovimento –e la sofferenza delle vittime, tutte le vittime di una lunga scia di sangue, si attenuerà- allora i dati oggettivi avranno ragione dell’ideologia antisessantottina.
Vale la pena di riflettere sul perché –quarant’anni dopo!- sopravviva un tale bisogno di riscossa, un’ansia demolitoria, nei confronti di un movimento talmente lontano nel tempo. Ma prima voglio ricordare, di quella mia esperienza precoce, solo un paio di aspetti.
Anzitutto l’immediatezza naturale con cui ti sentivi destinato a partecipare di un’esperienza collettiva. Non avevo dubbi sul fatto che avrei frequentato collettivi, assemblee, cortei, e possibilmente feste, direi già dalla seconda media. Quando invidiavo mia sorella maggiore che ascoltava la musica nuova e vestiva trasgressivo e lasciava intravedere la possibilità di una condizione esistenziale altra non solo dall’infanzia, ma anche dal conformismo adulto. Il tutto in un mondo in subbuglio che reclamava la tua attenzione ovunque tu volgessi la testa. Insomma, fin dal primo giorno di liceo leggevo avidamente i volantini, trovavo invitanti i manifesti scritti a pennarello per convocarci nelle riunioni pomeridiane, ero curioso di discutere le ragioni gridate nel megafono.
Dai diciassettenni-diciottenni che orientavano le assemblee era facile passare all’incontro con figure adulte così diverse dal circuito familiare: intellettuali e operai portatori di saperi affascinanti. Ho avuto la fortuna sfacciata d’incontrare allora dei maestri non dogmatici ma severi nel pretendere lo studio accanto all’azione. Certo, mi è andata bene: fossi finito nelle sgrinfie di qualche ideologo marxista-leninista-maoista… Invece ho proseguito nel mio destino di nuovo venuto, quasi sempre il più giovane cui si proponevano letture e nuove conoscenze insieme alla gratificante sensazione (illusione) di essere pervenuto precocemente alla maturità.
Il secondo ricordo che va menzionato è dell’anno successivo. Sul sagrato del Duomo, la mattinata livida dei funerali, dopo la strage di piazza Fontana. Avevo compiuto 15 anni pochi giorni prima. Un ragazzino chiamato alla consapevolezza che in Italia la morte poteva essere comminata per vie illegali da settori oscuri, interni agli apparati dello Stato. Poi ci si chiede perché la cultura riformista abbia penato tanto a farsi strada nel nostro paese, e invece sentissimo il dovere di presentarci come rivoluzionari.
In conclusione vorrei dire la mia sul perché il Sessantotto dà ancora tanto fastidio.
Credo c’entri parecchio il forte insediamento del partito comunista nel nostro paese, e la sua indiscutibile egemonia sull’intero schieramento di sinistra. Aggiungiamo il prestigio derivante a una parte cospicua dei suoi gruppi dirigenti dall’essersi formati poco più di vent’anni prima nel fuoco della Resistenza antifascista, e gli ingredienti ci sono tutti.
Ma come si permettono questi giovinastri di venire a darci delle lezioni di coerenza e di rivoluzione? Che si trattasse della nuova classe operaia immigrata alle catene di montaggio, o degli studenti provenienti dal ceto medio e dalla borghesia, esplodeva il dramma dell’incomunicabilità. Per dialogare con chi guidava la sinistra italiana, molti leader del Sessantotto intrapresero a loro volta una competizione ideologica, cioè imperniata sul falso terreno della legittimità e dell’ortodossia. Chi è il più marxista, chi il più leninista? Chi davvero rappresenta gli interessi della classe operaia? Chi è il degno successore dei partigiani, e chi invece ne ha tradito il sacrificio? Eccetera.
Così si è verificato il paradosso di un’insorgenza dirompente nei confronti dei codici culturali preesistenti che in Italia si sarebbe cronicizzata (abbiamo avuto il Sessantotto più lungo del mondo, protrattosi per una buona metà del decennio successivo) e per giunta burocratizzata. Ricondotta nelle gabbie dell’ideologia dominante sulla tradizione novecentesca del movimento operaio (e delle sue eresie). Merito anche della duttilità e dello sforzo di adattamento del Pci alla nuova composizione sociale e alle nuove dinamiche culturali del Sessantotto. Ma sempre col retropensiero di avere a che fare con dei disturbatori della Politica togliattiana con la P maiuscola; e sempre col fastidio, tuttora persistente nei confronti di una società bollata di arretratezza, sovversivismo, ignoranza. La stessa diffidenza mostrata nel Sessantotto nei confronti dei movimenti estranei alla sinistra ufficiale (nelle fabbriche, nelle scuole, nel dissenso cattolico, sul fronte della liberazione sessuale), la ritroviamo lungo gli anni Novanta fino a oggi nei confronti della cosiddetta “società civile”.
Più facile spiegare l’insofferenza antisessantottina di una destra italiana che a quel tempo non aveva fatto i conti col fascismo (per la verità neppure oggi), e restava impregnata di conformismo, clericalismo, sarcasmo qualunquistico. Non a caso l’intellettuale benpensante che più di ogni altro –e con maggior successo di pubblico- prende di punta il movimento di rivolta giovanile è Indro Montanelli. Lui che ha attraversato furbescamente il fascismo per poi continuare a distinguersi dagli antifascisti –dotato di una penna magnifica che gli consentiva di presentarsi anticonformista pur restando sempre ben insediato nell’establishment del momento- catalizzò da par suo una reazione ironica dei benpensanti. La caricatura di un Sessantotto opera di figli di papà un po’ tonti e un po’ fanatici furoreggia ancora. Mario Capanna e Giulia Maria Crespi, i “cinesi”, i “katanga”: la solita solfa.
E’ per fare rabbia agli ultimi epigoni di questo insulso luogocomunismo che dobbiamo proclamarci tutti, orgogliosamente, reduci del Sessantotto. Anche quelli che sono nati dopo, tanto nessuno controlla la carta d’identità.

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