Sarkozy, i bambini e la Shoah

venerdì, 15 febbraio 2008

Sarkozy

Questo mio articolo è uscito oggi su “Repubblica”.

La suggestiva, dolorosa adozione a distanza di ciascuno degli undicimila bambini ebrei francesi uccisi nella Shoah, raccomandata dal presidente Sarkozy a tutti gli alunni dell’ultimo anno di scuola primaria –a perpetuarne il nome e la tragedia- rivela quanto difficile sia la pedagogia della memoria.
Pare quasi che nel mondo contemporaneo, per risvegliare i nostri sensi assopiti, dobbiamo andare in cerca dell’elettroshock garantito solo dalla personalizzazione, moltiplicando undicimila volte Anna Frank. O addirittura un milione e mezzo di volte, perché tanti furono i bambini sterminati in Europa dalla furia nazifascista.
L’intento è nobile. Il presidente francese che già nel giorno del suo insediamento all’Eliseo rivolse il suo primo pensiero a Guy Moquet, giovane partigiano comunista condannato a morte, autore di una splendida lettera di commiato, sente il dovere di rappresentare una cultura patriottica fondata sui valori della Resistenza. Che differenza fra l’orgogliosa eredità gollista e il revisionismo minimizzatore della destra italiana!
Eppure avvertiamo un senso di inadeguatezza in questa relazione con la memoria così personalizzata. Non tanto per gli effetti traumatici paventati dagli insegnanti. C’è dell’altro. La Shoah divenuta oggetto di fiction, messa al centro di innumerevoli opere narrative, viene scrutata sempre più da vicino nel tentativo di venire a capo del suo mistero che resta indecifrabile. Com’è potuto accadere un evento così mostruoso, enorme non solo per il numero delle vittime ma anche per la quantità di colpevoli, di complici, di indifferenti? Probabilmente non troveremo mai una risposta soddisfacente. E allora il bisogno di capire ci conduce dalla storia alla microstoria, degenerando perfino in una sorta di pornografia della Shoah. La Francia che propone ai suoi bambini l’adozione dei coetanei sterminati è il paese che ha osannato come evento letterario un libro morboso come “Le benevole” di Jonatan Littell. Biografia incestuosa di un carnefice omosessuale, novecento pagine zeppe di ogni liquido e di ogni fetore, fantasie maniacali fin nel recondito delle fosse comuni e delle camere a gas. Avvertiamo il gusto del proibito. Una distanza abissale rispetto alla sobrietà del racconto di Primo Levi, elaborato come faticosa conquista di razionalità, trattenuto come forma di pudore. Sia detto per inciso: dubito che l’Einaudi di Primo Levi avrebbe pubblicato la traduzione italiana di Littell.
Il rischio è la distorsione dell’effetto desiderato. Addirittura si instilla il dubbio di un privilegio castale, e questa sarebbe l’ennesima ingiustizia somministrata alle vittime. Ce ne siamo accorti anche con la pubblicazione online della lista di docenti ebrei e con il boicottaggio proposto alla letteratura israeliana. Serpeggia l’insinuazione della Shoah deformata come una sorta di ideologia privilegiata.
Negli stessi giorni in cui la Torino democratica, giustamente, difendeva la scelta di invitare Israele al Salone del Libro, non è stata prestata l’attenzione dovuta alla spedizione punitiva contro un gruppo di cittadini rumeni. Col pericolo di instaurare una sproporzione fra memoria delle atrocità del passato e insensibilità per la xenofobia contemporanea.
Quando vado nelle scuole a parlare in occasione della Giornata della Memoria, ripeto sempre che la lezione della storia deve tradursi in un interrogativo attuale: saremmo disposti a sopportare di nuovo la discriminazione e l’esclusione del diverso, prima ridotto a ospite ingrato e poi destinato all’eliminazione? La pedagogia della Shoah rappresenta uno strumento prezioso che deve adeguarsi alla novità del contesto multietnico. Suscitare interrogativi, promuovere comportamenti, indurre a mettersi sempre nei panni dell’altro. Altrimenti gli ottimi propositi di immedesimazione nella tragedia ebraica possono risultare controproducenti.

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