Buon compleanno Inter

giovedì, 6 marzo 2008

Curva nord inter stadio

Scusate se cambio bruscamente argomento rispetto all’infuocata trasmissione di ieri sera. Ma sto andando a Imbersago per presentare l’Almanacco del centenario dell’Inter (editore Skira) insieme al presidente Massimo Moratti, al realizzatore Oliviero Toscani e al direttore della “Gazzetta dello Sport”, Carlo Verdelli. Vi propongo dunque l’articolo nerazzurro che ho pubblicato su “Vanity fair”.

Voglio bene all’Inter anche perché il suo centenario mi evita di parlare della tragedia di Gaza e della disgrazia di Bassolino. Calcio nuovo oppio dei popoli? Ebbene sì, sono tossicodipendente.
Appartengo alla generazione che varcando per la prima volta il cancello dello stadio, un’agognata domenica pomeriggio di un campionato anni sessanta, ha ancora potuto esclamare: oohhh… Senza che neppure fosse iniziata la partita. Perché la tv in bianco e nero neanche lontanamente rovinava la sorpresa per quel prato e gli spalti coloratissimi, macchie d’arcobaleno capaci di distrarre anche il bambino più concentrato per la paura di perdersi l’azione decisiva dei ventidue atleti in campo, senza alcuna speranza di replay. E doverlo confessare la mattina dopo in classe, circondato da compagni invidiosi dal fiocco storto, il moccico al naso e le mani tatuate d’inchiostro. Hai visto il gol di Suarez? Veramente non me ne sono neanche accorto, era lontano e urlavano tutti…
Drogati anzitempo, nella più tenera età, da un padre abbonato che mai gli ha lesinato una domenica allo stadio e dalla tv a colori zeppa di replay, i miei figli conservano ugualmente ricordi indelebili di quella prima volta a San Siro, laboratorio ideale di complicità maschile. L’ultimogenito del branco, Giacomino, all’esordio vide Bobo Vieri rifilarne quattro al Brescia. Da allora, nonostante i nove anni compiuti, vicini superstiziosi lo toccano in ogni pre-partita e lamentano sue eventuali assenze. Ignari del fatto che la sua prima trasferta all’estero fu al contrario derelitta, lo squallore di Villareal, con rientro a Malpensa alle 4 di notte tra gli ultras inviperiti. Fu anche l’ultima volta che salutammo Giacinto Facchetti, durante l’allenamento. La prima stretta di mano con lui, in tribuna a Bologna, avevo provato un’emozione fortissima: come se avessi incontrato Sandokan, o il capitano Nemo, o il capobanda della via Paal. Piansi tutto questo in Sant’Ambrogio, davanti alla sua bara.
Giuseppe, il più alto e il più razionale dei miei figli, a San Siro ci ha pure giocato da pulcino, usando solo una metà campo, arbitrati non ricordo bene se da Cauet o Zamorano. Quanto a Davide l’intermedio, con lui condividerò sempre il pianto del 5 maggio all’Olimpico di Roma, la furia contro gli slogan razzisti della nostra curva, ma anche la sfilata vittoriosa nel centro di Milano dopo l’ultimo scudetto.
Vedete? Dovrei parlare dei cent’anni dell’Inter e invece parlo di me, di noi. Come sciogliere un tale intreccio sentimentale? Sono perfino contento di levare la mia ode la mattina dopo una sconfitta (Napoli-Inter, sublime il rigore parato da Julio Cesar) e che sulle cerimonie penda minacciosa la partita di ritorno con il Liverpool, a ricordarci quel che veramente siamo. Squadra umanissima d’emozioni e insicurezze, vincitrice attraverso l’epopea e poi capace di perdersi, com’è la nostra vita.
Non c’è niente da fare, l’amore per l’Inter è regressione all’infanzia. Lasciatemi allora concludere riportando la personale memoria che ho spedito a Oliviero Toscani per il librone del centenario (edito da Skira). Avevo l’età di Giacomino.
“Il 27 maggio del 1964 un bambino disappetente di nove anni, già in pigiama, ottenne il permesso speciale di restare sveglio davanti alla tv. Sua madre lo turlupinò: “Guarda che se non mangi neanche i tuoi campioni ce la possono fare”. Ricordo ancora le dimensioni mostruose della pagnotta imbottita che mi fu messa tra le mani. Masticavo tenace con gli occhi sbarrati sullo schermo. Deglutivo a fatica ma senza fermarmi: il primo rito scaramantico, più mangiavo e meglio i nostri giocavano! Mi fermavo solo per sventolare a ogni gol la bandiera nerazzurra appoggiata sul divano. Quando capitan Picchi sollevò la coppa al cielo, in mezzo al Prater di Vienna, e i bianchi del Real Madrid apparvero infine domi, mio padre si lasciò commuovere: come avrei potuto dormire con tutta quella adrenalina nel cervello e con tutto quel pane nella pancia?
Così quel bambino solitamente spedito a letto addirittura prima di Carosello, prese posto in pigiama sulla 1300 Fiat, la bandiera fuori dal finestrino. Tutti in piazza Duomo! Viva l’Inter che libera la notte dei bambini!”.

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