Una lettera sul caso Moro

mercoledì, 12 marzo 2008

moro.JPGQuesto articolo è uscito oggi su “Vanity fair”.

Del sequestro di Aldo Moro -iniziato con l’assassinio dei poliziotti che lo scortavano e concluso con la fredda esecuzione dello statista lungamente interrogato e tormentato- vorrei dialogare con una donna che quel 16 marzo 1978 era una bimbetta di un anno.
L’ho conosciuta. Provo nei suoi confronti un’imbarazzata ammirazione. Si chiama Benedetta Tobagi e di lì a poco, il 28 maggio 1980, anche lei avrebbe subito l’omicidio di suo padre Walter, giornalista, per mano di emuli delle Brigate Rosse.
Benedetta Tobagi ha scritto di recente sul “Sole 24 Ore” una lettera di protesta contro l’eccessiva partecipazione alla vita pubblica dei protagonisti della cosiddetta lotta armata. E poi, col suo carico di dolore personale, ha voluto affrontare la tragedia repubblicana del caso Moro, dal punto di vista delle sue vittime troppo spesso dimenticate.
Non mi basta dare ragione a Benedetta. Se lei accettasse, vorrei prenderla per mano e condurla nel tunnel del vissuto di quegli anni terribili, quando eravamo in molti a “metterci in mezzo”, di traverso a una guerra assurda e inaccettabile.
Devo ringraziare lo storico Agostino Giovagnoli per avermi ricordato col suo documentato libro -“Il caso Moro”, il Mulino editore- un episodio sfumato nella memoria. Subito dopo l’agguato di via Fani, Walter Tobagi venne a trovarmi nella redazione di “Lotta continua”. Ci eravamo conosciuti quattro mesi prima, quando le Brigate Rosse avevano assassinato Carlo Casalegno e noi su Lc ne avevamo condannato la disumanità. Io avevo 23 anni e un’aria sciamannata, Tobagi sempre in giacca e cravatta mi pareva un signore attempato, anche se aveva poco più di trent’anni. Giovagnoli riporta ampi stralci dell’intervista pubblicata il 19 marzo 1978 sul “Corriere della Sera”. Scusate l’autocitazione, ma mi preme recuperare una vita dopo il me stesso nel quale, con felice sorpresa, tuttora mi rispecchio.
“Se continuiamo a chiamarli ‘compagni che sbagliano’, assicurò Lerner, ‘lo diciamo non per ammiccare alle BR, ma per eliminare forme di rimozione che sono presenti nella sinistra’. Egli affermò anche: ‘fra di loro ci sono ex militanti nostri come del Pci’ e nei comunicati dei brigatisti c’era qualcosa di ‘russo’ che ricordava il Pci”.
Walter mi descrive “magro, vestito di velluto marrone”, e mi chiede di reagire alle accuse dei comunisti che ci additavano come fiancheggiatori delle Brigate Rosse: “Nessun altro gruppo, nemmeno il Pci, ha fatto un’autocritica sul terrorismo come l’abbiamo fatta noi dopo l’attentato di Casalegno e l’uccisione dei fascisti di Acca Larenzia…(il Pci) non ha fatto i conti fino in fondo né con lo stalinismo né con l’integralismo di partito e questo ha fatto sì che in passato i suoi stessi dirigenti abbiano compiuto azioni non molto diverse da quelle delle BR”.
Ho recuperato la fotocopia di quell’articolo, vorrei che la vedesse anche Benedetta Tobagi.
Per salvare la vita di Aldo Moro, noi di Lotta continua, ma anche il socialista Walter Tobagi, ci saremmo ben presto dichiarati favorevoli a una trattativa con le BR. Convinti che ciò non avrebbe regalato ai terroristi alcuna chance di vittoria in più (erano destinati a soccombere, dopo la semina dei lutti e dei veleni), e che non si dovesse sacrificare un’altra vita umana sull’altare di un’ipocrita concezione sacrale dello Stato.
Continuo a pensarla così trent’anni dopo. Ma se chiedo a Benedetta Tobagi di esercitare la sua ricerca addolorata su quelli che fummo, il motivo è un altro. Vorrei che guardasse con animo sgombro da pregiudizi a coloro che si mettevano in mezzo, e magari venivano accusati ingiustamente di ambiguità. Oso dirle che pure suo padre metteva in quell’esercizio qualcosa di più della passione giornalistica: era un cercatore di dialogo, fino ai margini della società.
Due anni dopo quell’incontro nella redazione di Lotta continua fra noi c’era ormai un’amicizia consolidata. L’ultima sera insieme, a Genova, mi chiese di mostrargli un quaderno che gli piaceva. Su quello stesso quaderno avrei preso gli appunti per l’articolo sul suo funerale. E presto seppi che a sparargli era stato il fratello minore di un mio compagno di collettivo al liceo Berchet. Così abbiamo vissuto la tragedia Moro: mettendoci in mezzo.

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