L’Italia s’è destra

mercoledì, 16 aprile 2008

delacroixok1.jpgFratelli d’Italia, l’Italia s’è destra. E la sinistra? Ci sono studiosi che la reputano ormai costituzionalmente inadatta a guidare le società occidentali, quindi destinata a essere prima o poi inclusa dalla destra stessa (vedi “Il Mostro Mite” di Raffaele Simone, Garzanti editore). Ne parleremo stasera alle 21,10 su La7 nell’Infedele televisivo. Ospiti: Arturo Parisi (Pd), Maurizio Lupi (Pdl), Matteo Salvini (Lega Nord), Nichi Vendola (Sinistra arcobaleno). In collegamento partecipa Paolo Mieli, direttore del “Corriere della Sera”. In studio mi daranno una mano nel ragionamento Patrizia Catellani (docente di psicologia sociale dei comportamenti politici all’università Cattolica) e Marco Damilano dell'”Espresso”. In attesa dei vostri contributi, anticipo la mia riflessione pubblicata oggi su “Vanity fair”.

L’Italia sarà governata dalla destra di Berlusconi, in cui pare riconoscersi come in uno specchio, quasi certamente fino al 2013.
E’ una destra che subirà anch’essa la metamorfosi dei tempi duri –la recessione, la supremazia asiatica, la rivoluzione dei prezzi agricoli e petroliferi- tali da non consentire più la briglia sciolta, l’”arricchitevi!” e lo Stato non s’impicci troppo. Al contrario il popolo chiederà al governo Berlusconi di fornirgli protezione e sussidio oltre che svago, e solo in cambio di un efficace accudimento manterrà sul piedistallo la figura del Capo, altrimenti destinata a sgretolarsi in fretta.
L’energia vitale da cui la destra trae alimento -e che le ha consentito di travolgere il nuovo Pd di Veltroni insieme al centro cattolico voluto da Ruini, provocando la cancellazione della sinistra critica e disinnescando il bluff catodico di una finta destra-Billionaire affidata all’esibizionismo della Santanchè- è un fluido profumato di nostalgia.
L’avvertiamo nell’espansione prepotente della Lega Nord, conseguita sotto la guida di un leader carismatico refrattario alle telecamere, malato e stanco, ma ciò non di meno “vero”, a differenza della Cicciolina-Santanchè e di monsignor Giuliano Ferrara, tutte le sere entrambi in tv ma senza riuscire a schiodare consenso.
Umberto Bossi, affiancato dall’estro creativo di un Tremonti che riscopre i classici del pensiero tradizionalista europeo, si accomoda nell’universo berlusconiano ma ne occupa le frontiere strategiche del territorio. E’ suo l’unico partito tuttora organizzato secondo i crismi antichi della militanza. Si erge a garante di un Nord che come tale non esiste –diviso com’è fra reti d’interesse differenziate- ma a cui piace immaginarsi “nazione proletaria”, vittima designata dei finanzieri cosmopoliti e dell’immigrazione extracomunitaria. Le giovanissime guardie padane che in Monferrato regalavano lecca lecca a mio figlio e al suo compagno di scuola peruviano, il rappresentante di lista del Carroccio che a Milano ha gentilmente tenuto al guinzaglio il nostro bastardo J mentre Umberta entrava nel seggio per votargli contro, sono parte di una nuova generazione di militanti del territorio inesistenti nei moderni partiti d’opinione.
I giornalisti parlamentari si chiedono come Bossi utilizzerà la “golden share” di cui può avvalersi al Senato, dove non ci sarebbe maggioranza di destra senza i suoi. Ma non è certo a Roma che il fondatore della Lega vuole riscuotere il suo dividendo. Lo vedremo presto rivendicare la presidenza della Regione Lombardia, condizionare le scelte di Letizia Moratti sull’Expo 2015, puntare alle risorse finanziarie delle fondazioni bancarie: cioè radicarsi ulteriormente sul territorio che gli ha generosamente raddoppiato i voti nonostante l’umiliazione di Malpensa.
La terza forza residua in un Parlamento che si è avvicinato (felicemente) al bipartitismo delle principali democrazie europee, resta dunque un movimento a vocazione localistica, come tale difficilmente addomesticabile. Lo dimostra la tenacia con cui ha difeso il suo simbolo elettorale, indisponibile a lasciarsi conglobare come Alleanza Nazionale.
La natura popolare e –perché no?, plebea- del leghismo ha funzionato da argine nei confronti di un Pd che mostrando un profilo moderato sperava di conquistare nuovi elettori al Nord. Veltroni se l’è cavata cannibalizzando col richiamo del “voto utile” le forze alla sua sinistra, ma la rappresentanza dei ceti svantaggiati e del mondo del lavoro settentrionale è ormai sottratta alla sinistra: un evento imbarazzante per chi oggi la guida dopo aver reciso quei legami storici.
Nonostante la sconfitta bruciante, del tutto prevedibile, credo che alla leadership di Veltroni vada riconosciuto un merito non secondario: l’avere consolidato il Partito democratico come scelta di non ritorno che determina la modernizzazione del sistema politico italiano. Da referendario convinto vedo con piacere la drastica riduzione del numero di partiti rappresentati in Parlamento. Non ci vedo nulla di antidemocratico, semmai il contrario. E spero che nessuno voglia innescare la retromarcia, perché anche la sinistra ha da ripensarsi in questo scenario politico completamente nuovo.

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