Buon Pesach da Varsavia

sabato, 19 aprile 2008

300px-rivolta_del_ghetto_di_varsavia.jpgQuesta sera celebreremo a Varsavia, dove sono arrivato con la famiglia al completo, una Pasqua ebraica davvero speciale. Ceneremo col pane azzimo per ricordare la liberazione dalla schiavitu’ d’Egitto. Ma prima, alle 12, saremo al fianco di Marek Edelman (87 anni), vicecomandante del Zob (organizzazione ebraica di combattimento), uno dei pochissimi sopravvissuti della rivolta del ghetto di Varsavia. Comincio’ il 19 aprile 1943, giusto sessantacinque anni fa. Fu uno degli episodi piu’ eroici della storia novecentesca. Il comandante Marek Edelman, sopravvissuto per caso, si salvo’ raggiungendo attraverso le fogne la parte ariana della citta’ poco prima che il ghetto venisse definitivamente raso al suolo.
La coincidenza della Pasqua nell’anniversario della rivolta meritava un viaggio, soprattutto per i figli che abbiano il privilegio di viverla al fianco di una persona meravigliosa e scorbutica come Marek, il guardiano delle tombe del suo popolo. Lui convoca gli amici al di fuori delle celebrazioni ufficiali. Nell’attesa di una giornata per me davvero importante, vi propongo il resoconto del mio precedente incontro con lui, nel maggio 2006, pubblicato su “Vanity fair”.

Mi avevano consigliato: è uno scorbutico, non ti presentare da lui senza una bottiglia di cognac o di whisky.
In effetti quando sono arrivato a Lodz, nella sua villetta bilocale tappezzata di quadri e fotografie, i tecnici polacchi già da un paio d’ore trafficavano piazzando riflettori, monitor e telecamere, e lui si era rinchiuso esasperato in cucina con tre pacchetti di gauloises senza filtro e una vodka. La fama dell’eroe non gli ha reso meno dura la vita, una volta che ha scelto di non andare a riscuoterla all’estero, in Israele, negli Stati Uniti, in Italia. A ottantacinque anni il dottor Marek Edelman, medico cardiologo, sa parlare solo il polacco –la lingua del paese in cui è nato e dove ha vissuto ininterrottamente per cinquant’anni sotto regimi totalitari- e il tedesco –la lingua dell’armata che voleva ripulire l’Europa ariana dalla presenza di gente come lui. Dimenticavo, Edelman conosceva anche l’yiddish, ma con chi volete che lo adoperi in una Polonia che nel 1945 si è trovata di colpo senza ebrei: sterminati in soli tre anni, dal 1942 al gennaio 1945, più del 90 per cento dei suoi tre milioni e mezzo di ebrei?
Fin da quand’ero ragazzo volevo conoscere Marek Edelman, comandante del minuscolo esercito per il quale provo insieme il massimo del rispetto e della commozione: la Zob, organizzazione ebraica di combattimento sorta fra i giovani del ghetto di Varsavia che assistevano impotenti alla deportazione finale delle loro famiglie verso Treblinka da quell’Umschlagplatz con i binari. Mansueti, tutti riuniti a salire sull’ultimo treno, magari grazie all’esca di tre pagnotte e una vaso di marmellata per sfamare i bambini.
Decisero, i ragazzi della Zob, che loro sarebbero morti combattendo. Riuscirono a procurarsi una quantità irrisoria di pistole e nell’aprile del 1943 aprirono il fuoco sui tedeschi. Increduli, li costrinsero a contare dei morti nelle loro file –tedeschi uccisi dagli ebrei!- e a fuggire per qualche giorno dal ghetto, che per vendetta e liquidazione definitiva verrà dato alle fiamme.
Marek Edelman a ventidue anni fu un comandante di quell’insurrezione. Guidò la battaglia della fabbrica delle spazzole. Fu tra i pochissimi che il 10 maggio riuscirono a fuggire armi in pugno, attraverso le fogne, fino alla parte ariana di Varsavia. Dove avrebbe continuato la resistenza partigiana, di nuovo schiacciata nel sangue l’agosto ’44.
Avrete capito che dell’ormai vecchio ma indomito Edelman non m’importava tanto l’intervista, che pure ho trasmesso come il fiore all’occhiello dell’Infedele 2006. Mi premeva guardarlo negli occhi, stringergli la mano, assorbire per un attimo l’energia misteriosa con cui un uomo così sfida il mondo. Mai stanco di denunciare l’odio e la persecuzione etnica: disdegna gli omaggi di benemerenza all’estero, invece a Sarajevo assediata ha voluto andarci, eccome. Così come oggi denuncia lo scandalo di Radio Maria che in Polonia appoggia un governo populista riesumando un indecente antisemitismo senza ebrei. Finchè il Vaticano censura quella radio cattolica, e deve scrivere a Edelman il primo ministro di un governo polacco sorto grazie a quella velenosa propaganda via etere.
Un duro, un rompiscatole. Quando infine ci sediamo e gli chiedo che senso abbia fare per una vita il guardiano delle tombe del suo popolo, lui fissa dritto la telecamera: “Perché qualcuno provi dispiacere quando lo guardo negli occhi. Voglio dispiacere a quelli che sono contenti che gli ebrei siano morti in Polonia. Hanno vergogna di guardarmi negli occhi, hanno paura di me. E questo mi fa piacere perché non hanno paura di me, ma della democrazia”.
Vorrei abbracciarlo ma mi respingerebbe in malo modo. Come ha disprezzato la bottiglia di vino piemontese, roba da signorine, lui pasteggia con ben altro alcol, sempre con una sigaretta accesa. Per fortuna ho comprato a Malpensa pure uno scotch.
Con me in casa Edelman è venuto il mio primogenito diciassettenne Giuseppe, che sull’aereo ha divorato il suo libro di ricordi (“Il guardiano”, Sellerio editore, a cura di Rudi Assuntino e Wlodek Goldkorn). Si sfiorassero almeno per un attimo, quelle due generazioni europee. Un Edelman sopravvissuto per eroismo e capriccio della sorte. Un Lerner generato dopo lo sterminio solo grazie al fatto che i suoi nonni paterni ebbero la preveggenza di emigrare in Palestina, scampando alla cancellazione dell’intera famiglia. Di nuovo un capriccio della sorte.
Alla fine con Edelman abbiamo brindato. Alla vita.

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