Leopoli, una patria sottoterra

martedì, 12 agosto 2008

leopoli.jpgVi propongo la prima tappa del mio viaggio da “turista della memoria” nella regione in cui avrei dovuto nascere. E’ uscita oggi su “Repubblica”.

LEOPOLI- “Tag tag, ricordo quel nome!”. La vecchia ucraina in vestaglia, seduta sul suo letto nell’isba miserabile ai bordi del paese, gli occhi da uccello spalancati nello sforzo di ricordare, rigira fra le mani cerulee una fotografia portale dal forestiero, e infine gli provoca un tuffo al cuore. “Tag, erano persone gentili, la casa c’è ancora, due curve insù”.
Terra promessa cercasi, sottoterra. Almeno una traccia, una reminiscenza per giustificare questo assurdo turismo della memoria iniziato come un gioco letterario ma che ormai coinvolge migliaia di ebrei provenienti dagli Stati Uniti, dall’Argentina, da Israele, dal Sudafrica, dall’Australia: un viaggio all’indietro dall’Ucraina contemporanea fino alla Polonia e all’impero asburgico in cui fiorì per sei secoli la Galizia yiddish, patria mitica e ancestrale. Poi, d’un colpo, incenerita o dispersa in una nuova diaspora. Quasi che l’”operazione Barbarossa” scatenata da Hitler nell’estate 1941 replicasse la distruzione del Tempio di Gerusalemme.
“Voglio vedere Trachimbrod”, spiega l’eroe americanissimo del romanzo di Jonathan Safran Foer, “per vedere com’è, dov’è cresciuto mio nonno, dove vivrei adesso se non fosse stato per la Guerra”. E in effetti, proprio come il protagonista di “Ogni cosa è illuminata”, anche noi arriviamo di solito con una fotografia sbiadita tra le mani: tipo queste del bisnonno rabbino di Boryslaw, rav Moshé Yitzach Lerner, o della bisnonna Haia Borgman, che nel medesimo shtetl alle pendici dei monti Carpazi gestiva alcuni pozzi petroliferi. Fu combinato un doppio matrimonio tra i figli del rabbino e le figlie della possidente, ma solo i miei nonni Elias e Mamcia ebbero la buona idea di lasciare Boryslaw per la Palestina dopo le nozze intorno al 1925, tornandovi qualche volta in visita d’estate col piccolo Moshé nato a Haifa, mio padre. Ciò fino al 1938: mancano notizie successive dei Lerner e dei Borgman se non per qualche lacunosa lista reperibile negli schedari del museo di Yad Vashem a Gerusalemme, da cui arguire chi sia stato fucilato nelle prime aktion del 1941, chi liquidato nelle camere a gas di Belzec, chi selezionato per i lavori forzati e dunque eliminato alla fine del 1943. Di molti, però, si è perduto anche il nominativo.
Sull’aereo da Vienna a Leopoli –il capoluogo della Galizia che gli ebrei ashkenaziti come i tedeschi chiamano Lemberg, i polacchi Lwow, i sovietici Lvov, gli ucraini L’viv- ho incontrato una famiglia di Tel Aviv impegnata nel medesimo pellegrinaggio. Ce lo si confida con un certo imbarazzo, questo andare in cerca di non si sa bene che cosa e chi, “per vedere almeno da dove veniamo”. La famiglia Friedman nel frattempo ha ebraicizzato il suo cognome in Amit. Viaggiano con una telecamerina e con l’edizione ebraica dello stesso libro che ha sollecitato pure me a partire. Titolo: “Gli scomparsi. La ricerca di sei, fra sei milioni” di Daniel Mendelsohn (in italiano l’ha tradotto Neri Pozza).
Bisogna leggerlo per capire cosa spinge un sofisticato intellettuale newyorkese a volersi identificare nel macellaio kasher Shmiel Jager, fratello di suo nonno, rimasto a vivere nella minuscola Bolechow. Fino a ricostruirne meticolosamente la scomparsa insieme alla moglie e alle quattro figlie. A costo di vagabondare per anni in cerca dei dodici sopravvissuti fra Israele e l’Australia, la Svezia e la Danimarca, prima di osare il sopralluogo decisivo proprio lì, pochi chilometri a sud della “mia” Boryslaw.
Chi intraprende il viaggio della memoria nella terra promessa cancellata non è necessariamente un cultore della consanguineità, degli alberi genealogici, di un’araldica da strapazzo. Semmai vuole restituire un senso a quella fatica di vivere che nell’infanzia gli veniva spacciata per cosmopolitismo: l’accento goffo nel quale incespicava la nonna, la nevrosi dei congiunti parlanti molte lingue però tutte con fatica, la censura imposta su una parentela scomparsa senza il quando, il come, il perché. Magari si iscriverà al sito www.jewishgen.org per seguire gli aggiornamenti dei sefer yizkor, i libri della memoria dedicati a ogni singolo shtetl. O magari contatterà una delle associazioni di reduci da questo o quel villaggio polacco, bielorusso, lituano che ancora celebrano riunioni periodiche.
Mi aiuterà forse a spiegare l’utilità di questa terapia, il dialogo surreale in cui sono stato coinvolto esattamente una settimana dopo la mia visita galiziana. Cenavo in un elegante locale di Beirut con una pittrice palestinese. Randa, questo il suo nome, quasi mi aggrediva sostenendo il diritto della sua famiglia alla restituzione degli aranceti perduti nel 1948, quando fuggì da Jaffa in Libano: “O torniamo a quel punto, o non ci sarà mai pace”. Le ho raccontato che pochi anni prima, a Boryslaw, anche la mia famiglia fu espropriata dei pozzi di petrolio. Ne ricordiamo i nomi, ma non ho neppure verificato se esistano ancora, così come probabilmente non esistono più i suoi aranceti. La storia non contempla il replay. Randa mi ha capito, aiutata dal fatto di aver goduto come me di una vita fortunata, a differenza di molti nostri connazionali.
In effetti tra i primi ebrei a ritornare nell’Ucraina indipendente, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ci fu chi ingaggiava detective e avvocati sperando di recuperare le proprietà perdute. Con esiti, naturalmente, fallimentari.
Di ben altri tesori vanno in caccia i malinconici turisti della memoria nella patria di Shalom Alechem, Joseph Roth, Bruno Schulz. Per accompagnare il suo eroe fino alla meta immaginaria di Trachimbrod, la fantasia di Jonathan Safran Foer ha partorito l’apposita sgangherata agenzia “Viaggi Tradizione” composta da un nonno semicieco, il nipote allibito che degli americani sprechino dollari nello squallore ucraino, un cane perennemente arrapato. Ma nel frattempo è sorta per davvero l’organizzazione “Shalom, haverim” (Pace, amici) che poggiandosi alla compagnia turistica “New Logic” di Kiev fornisce servizi d’accompagnamento a un numero crescente di nostalgici.
Precursore ineguagliabile, per delicatezza e competenza, di queste escavazioni nel mondo ebraico sommerso, resta un quarantenne ex soldato sovietico dalla corporatura sferica e dal sorriso contagioso: Alexander Dunai, una persona meravigliosa. E’ lui l’ucraino buono, l’altro protagonista del libro di Mendelsohn. Uno specialista che nei mesi invernali a Leopoli spulcia gli archivi dell’anagrafe, li confronta con i rapporti militari del Terzo Reich e dell’Armata Rossa, per poi strappare alla memoria rimossa degli anziani le testimonianze necessarie. Il raggio delle sue esplorazioni è vastissimo, ho faticato a farmi concedere da lui una giornata tra un viaggio e l’altro. Ma ne valeva davvero la pena perché Alex sa compenetrarsi nei tuoi buchi neri con la delicatezza di chi ormai frequenta il dramma, lo elabora animato com’è da simpatia appassionata. Di recente si è rivolto a lui anche il figlio di un crudele poliziotto ucraino, rimasto turbato dalla lettura de “Gli scomparsi”: ha voluto visitare il teatro delle atrocità commesse da suo padre sessantacinque anni fa.
L’ho visto accendersi di entusiasmo quando Volodymyra Petryshyn, una vecchietta di 87 anni seduta sul suo letto in una catapecchia di Boryslaw, ci ha indicato la casa di via Potock in cui vivevano i parenti di mia nonna. E’ stato lui a passarmi delicatamente il sasso da posare in ricordo, nel bosco di conifere dove il 28 novembre 1941 gli Einsatzkommandos fucilarono i primi millecinquecento ebrei “inutili”, tra cui probabilmente i miei familiari più anziani.
Poi la sera, in albergo a Leopoli, prima di scappare dai figli che l’indomani avrebbe di nuovo lasciato per giorni, ha accettato solo che gli rimborsassi la benzina della sua Passat.
Faccio fatica a raccontare la bellezza solenne di questa grande città europea, Leopoli, dove le insegne dei negozi hanno cambiato alfabeto col succedersi delle dominazioni. Ora il latino e l’ebraico hanno ceduto il posto al cirillico lungo le strade di pietra antica, le chiese armene, polacche, uniati, ortodosse. I palazzi e i caffè asburgici, il teatro dell’Opera, le università, la piazza del mercato, il grande ospedale israelitico costruito in stile orientale a fine Ottocento e tuttora funzionante dopo la liquidazione fulminea della popolazione ebraica, 136 mila persone, un terzo della città. Mi condiziona la lettura delle trenta pagine morbose dedicategli da Jonathan Littel ne “Le benevole”, un resoconto presentato attraverso gli occhi di uno psicopatico ufficiale delle SS. Lui stesso inorridito, descrive la furia antisemita degli ucraini che per secoli hanno convissuto con i polacchi e con gli ebrei. Convinti siano ebrei gli artefici del massacro di tremila detenuti nel carcere della Nkvd sovietica, prima che l’Armata Rossa si ritirasse, scatenano una caccia feroce. Un’immagine su tutte resta impressa: al grido di “zid, zid, kaputt!,” persone inermi costrette a trasportare cadaveri putrefatti e a ripulire con la lingua il loro stesso sangue. Prima di essere a loro volta linciate.
Meglio volgere lo sguardo sull’avvenenza consapevole delle donne di Leopoli. Un erotismo tutto speciale, reso celebre dai disegni del pittore-scrittore Bruno Schulz. Anche la sua onirica morbosità, come vedremo nella vicina Drohobycz, fa parte della memoria ebraica che tentiamo di disseppellire.
(1-continua)

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