Medaglia d’oro a Hu Jintao

mercoledì, 13 agosto 2008

hu.jpgQuesto articolo è uscito su “Vanity fair”.
Ricorderemo la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Pechino come un evento storico, o meglio il simbolo di una svolta epocale destinata a modificare la nostra vita. L’ho guardata in tv, non mi vergogno a dirlo, sentendomene intimidito. Quasi che anch’io fossi chiamato a rendere omaggio alla nuova potenza cinese, così come i vari Bush, Putin, Sarkozy che in tribuna contornavano il presidente Hu Jintao, venuti a riconoscere che l’equilibrio del pianeta ha oggi un nuovo baricentro.
Credo che il nostro presidente del Consiglio abbia commesso un errore, disertando questo appuntamento con la storia. Del resto, quattro anni or sono, l’inviata dell’Infedele che provò a chiedere ai nostri parlamentari il nome del leader cinese registrò un’imbarazzante raffica di “non so”. Ma questi non sono che dettagli di una periferia attonita di fronte all’inevitabile evoluzione dell’umanità contemporanea.
Mi sono chiesto se quell’intimidazione che provavo fosse viltà di fronte alla forza ostentata da un regime totalitario. Se cioè abbiano ragione coloro che paragonano le Olimpiadi di Pechino a quelle di Berlino ’36 in cui Hitler volle celebrare la superiorità di un’inesistente razza ariana. Ma il nazismo durò in tutto solo dodici, terribili anni. La civiltà cinese ne conta invece quattromila, e lo Stato cinese esiste nelle sue attuali dimensioni da ben due millenni. Quanto alle altre formazioni politiche dell’Oriente asiatico (Giappone, Corea, Vietnam, Laos, Thailandia, Cambogia), erano già stati nazionali quando in Europa non esisteva alcuna strutture del genere.
La sacrosanta denuncia delle violazioni dei diritti civili in Cina, dunque, non può impedirci di riconoscere come evento ineluttabile e felice la restituzione alla civiltà asiatica del ruolo naturale che essa riveste nella vicenda umana. La storia, semmai, avrebbe dovuto insegnarci a fare i conti con lo spazio economico e culturale che inevitabilmente spetta a questa grande porzione del pianeta, retrocessa innaturalmente solo per una breve parentesi durata un secolo e mezzo. L’umiliazione patita dalla Cina a partire dalla Guerra dell’oppio (1841), sino a farne il paese più povero della terra e a insidiarne i confini storici, Tibet compreso, non poteva durare in eterno. La riscossa ha avuto inizio da una rivoluzione sociale d’impronta comunista, fondata (a differenza da quella russa) sul protagonismo delle campagne, nel corso della quale si sono verificate violenze e atrocità tali da indurre l’establishment cinese a rimuovere la centralità, grandiosa e tragica, del maoismo. Per questo i suoi ideologi hanno preferiscono ricollegarsi alla continuità imperiale millenaria della cultura confuciana. Ma resta il fatto che la transizione postcomunista della Cina usufruisce oggi di quella imponente socializzazione nel costruire un solido baricentro alternativo all’economia statunitense; al contrario della potenza russa che si affida pericolosamente all’aggressività energetica e militare per ritagliarsi uno spazio vitale.
Credo abbiano ragione gli studiosi come Giovanni Arrighi (“Adam Smith a Pechino”, Feltrinelli) nel constatare che la Cina sta uscendo vincitrice, non solo economicamente, dalla guerra mondiale al terrorismo scatenata dagli Stati Uniti. Tanto più ora che il conflitto irakeno pare risolversi a favore del vicino Iran. Spero che l’occidente sappia fare i conti saggiamente con le sue sconfitte: non è pensabile la costruzione di un nuovo equilibrio pacifico ignorando il ruolo reclamato da potenze millenarie, e anche la Persia è una di queste. Fare in modo che tali nazioni tornino a occupare lo spazio che gli spetta senza che ciò determini un pericolo per i loro vicini e per la stabilità mondiale, è un esercizio che implica un dosaggio assennato di fermezza e capacità d’arretramento. Illudersi di arrestarne il protagonismo con la guerra, scommettere sul protrarsi del modello egemonico americano, rischia di condurci alla catastrofe.
Ho pensato tutte queste cose, intimidito e ammirato, nel corso della cerimonia. George W. Bush vi compariva come l’attore di una fase storica in via di esaurimento. Le masse dei contadini e degli operai cinesi mi appaiono invece come artefici di un percorso di emancipazione –contrastato, certo, da soprusi e repressioni inaccettabili, ma rispetto alle quali hanno già dimostrato di sapersi difendere- che non contraddice la speranza di un futuro migliore per tutta l’umanità.

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