Viva le donne di Bruno Schulz

venerdì, 15 agosto 2008

bruno-schulz.jpgBuon ferragosto a tutti, con la seconda tappa del mio viaggio nella Galizia ebraica pubblicato oggi da “Repubblica”.

Drohobycz- Preannunciate dal fragoroso scalpiccio dei tacchi sul selciato di pietra antica, le ragazze ucraine incedono a coppie, spesso con un mazzo di fiori in mano, felici di essere guardate. Paiono infreddolite negli abitini leggeri, sofferenti nell’andatura certo poco agevole ma perciò stesso tale da incutere rispetto. Solcano il centro cittadino da dominatrici, desiderose di provocare già nell’adolescenza. Così, inaspettatamente, mi ritrovo di fronte le labbra dipinte, le chiome ondeggianti, ma soprattutto le lunghe gambe intorno a cui Bruno Schulz attorcigliava il rantolo del suo desiderio spudorato che ha dovuto disegnare perché quella sensualità esasperata risultava inesprimibile con le parole perfino a lui, il Kafka geniale della Galizia ebraica.
Lo hanno tacciato di feticismo e masochismo per la devozione sottomessa all’universo femminile che manifestava. Ma si tratta di una grossolanità smentita dall’eleganza con cui quell’uomo timido, sgraziato, ricurvo su se stesso, corrispondeva con donne evolute di cui rapiva il cuore e la mente.
Così, percorrendo il centinaio di chilometri a sud-ovest dalla Leopoli in cui studiò e pubblicò le sue opere fino alla cittadina di provincia, Drohobycz, in cui rimase imprigionato trasformandola però in epicentro di un mondo fantastico, ho pensato di affrontare il tema più scabroso cui la tragedia e il mito di Bruno Schulz alludono: cioè la sgradevolezza ebraica. Tanto più vistosa quando lui stesso la pone in relazione con la vitalità esuberante dell’eros. La campagna che attraverso, col grano maturo e i papaveri, le fattorie dai tetti di paglia, le cupole argentate delle chiese ortodosse, le oche al pascolo e i cavalli dalla criniera bionda, d’estate richiamano l’epopea di Tewie il lattivendolo, il Don Chisciotte ebraico creato da Shalom Alechem; nel gelo invernale suppongo vi prevalga la malinconia del povero maestro Mendel Singer, il Giobbe di Joseph Roth. Ma ora i violinisti non volano più sui tetti degli shtetl. Per cui sfuggiremo al luogo comune letterario propinato da chi, malvolentieri, accetta di subire domande sul passato: non è vero che qui per secoli abbiano convissuto felicemente ebrei, polacchi, ucraini. Se già a milioni, fra il 1880 e il 1914, il tempo dei pogrom zaristi, gli ebrei s’erano imbarcati sui bastimenti per le Americhe, ciò dipese da un’ostilità diffusa e sancita da ricorrenti legislazioni discriminatorie. Un clima appena mitigato nel ventennio 1919-1939 dalla ricostituzione di una grande Polonia estesa da Leopoli fino a Vilnius, in cui tutta la Galizia yiddish si trovò riunita. Un ulteriore incentivo a restare, lì alle pendici dei monti Carpazi, era venuto dalla scoperta di giacimenti di petrolio che rilanciarono l’economia di Drohobycz e della limitrofa Boryslaw, bucherellata di pozzi simili a spaventapasseri metallici in perenne oscillazione.
Lo testimonia la raffineria che mi accoglie di là dal fiume, nella conca verdissima dove sorgono le case classiche dalle tinte pastello e l’enorme sinagoga diroccata che la setta dei Lubavitch cerca di restaurare.
Nel pellegrinaggio della memoria sui luoghi di Bruno Schulz –i licei in cui insegnava disegno; la casa in cui abitò; la residenza di Felix Landau, l’ufficiale Gestapo che se lo prese come schiavo e per cui affrescò la camera del figlio; infine la via centrale dove per dispetto lo scharfuhrer Karl Gunther gli sparò alla nuca giovedì 19 novembre 1942- mi ha accompagnato l’avvocato ottantenne Vycheslav Kowalenko. Non esiste più il negozio di tessuti della madre Henriette, dove lui scrutava le commesse e rappresentava le straordinarie metamorfosi animali del padre Jakub. Ma rimane la via Strysska tramutata da Bruno Schulz in via dei Coccodrilli, ed è qui che ancora si rinnova il miracolo: “Camminano, queste ragazze, a coppie, dondolandosi sulle anche, spumeggianti di nastri e di gale”, e quando siedono, “come se fossero stanche della loro vuota parata”, “si scoprono le gambe posate l’una sull’altra, incrociate, intrecciate in una bianca forma piena di irresistibile eloquenza, e i giovani che camminando passano loro accanto tacciono e impallidiscono, colpiti dalla giustezza dell’argomento, profondamente persuasi e convinti”.
Oggi al posto della mussola e dei pizzi sarà magari un acrilico dozzinale a fasciarne le gambe affusolate, più spesso lasciate scoperte dagli shorts issati su tacchi a spillo. Ma l’effetto di natura sensuale è il medesimo, nella stagione calda che Schulz affresca in un trionfo di “sprazzi d’aria tremolanti”, “polpa, dolce fino alla nausea”, “quarti di carne, turgidi di forza e di sostanza, con la tastiera delle cotolette di vitello”. Qui mi fermo, considerando “Le botteghe color cannella” (Einaudi) un’opera imprescindibile del Novecento mitteleuropeo, sufficiente per affiancarlo a Franz Kafka di cui nel 1935 tradurrà in polacco “Il processo”, insieme alla fidanzata Jozefina Szelinska, scrivendone anche l’introduzione.
Non a caso quest’uomo che mise il naso fuori Drohobycz solo per fugaci viaggi a Vienna e a Parigi, ma più frequenti visite a Varsavia, è divenuto un punto di riferimento per Witold Gombrowicz e Tadeusz Kantor, una fonte d’ispirazione per Philip Roth, Bohumil Hrabal, David Grossman, Cynthia Ozik. Ma non è ancora onorato di un monumento nella sua città natale, infastidita forse dal suo legame privilegiato con la cultura polacca.
A meno che pesi ancora su di lui proprio quel disagio così ebraico che ho chiamato sgradevolezza. L’argomento è scivoloso, c’è di mezzo un’umiliazione perseguita nel tempo, un’inferiorità straniera comminata dal senso comune. Il disagio speciale con cui ancora oggi gli ebrei guardano le fotografie della Shoah, quei loro corpi denudati e irrisi prima dell’eliminazione, cela infatti il dubbio atroce: non c’è forse in noi qualcosa di inadeguato, sgraziato, respingente che spieghi il trattamento? Sarà forse la parlata aspra, il pensiero contorto, e ancora più sotto quella sensualità costipata che vediamo esplodere –in Bruno Schulz- di fronte alla perfezione del corpo femminile?
L’avvocato Kowalenko era ancora bambino, prima di salvarsi con la madre fuggendo in Unione Sovietica, quando riceveva a casa le visite dello strano insegnante che faceva gli occhi dolci alla sorella maggiore. Chi mai avrebbe immaginato il richiamo crescente esercitato dal suo mistero?
Ne sono stupiti anche i pochi ebrei rimasti a vivere qui, quasi tutti trapiantati da Stalin nel dopoguerra, dopo l’ecatombe di 14 mila vittime in una cittadina che non raggiungeva i 40 mila abitanti. Dunque Yosif Karpin, il presidente della Comunità israelitica, non può sapere dove sia stata ammucchiata, tra le altre, la salma di Bruno Schulz. E siccome il vecchio cimitero ebraico è stato spianato dai sovietici per costruirvi sopra dei casermoni popolari, mi conduce lungo la strada per Sambor, nella foresta di Bronnitzky, dove in un solo giorno vennero fucilati tremila ebrei di Drohobycz. Camminiamo tra il muschio e le felci fino a una radura. Sparse, a decine di metri l’una dall’altra, le undici fosse comuni sono ora segnalate con lastroni di cemento di vastità impressionante. Mi porge una kippà, accende dei lumini, e su ciascuna recita un Kaddish traslitterato in cirillico.
Il turista della memoria, illuso di venire a riprendersi la famiglia censurata che i nonni, emigrando in Palestina, s’erano lasciata alle spalle, ora lo capisce: la Galizia ebraica devi andare a cercarla nei boschi, umidi, dove la natura freme ancora per l’ammassamento d’umanità compressa per farcene stare di più, uno sull’altro. “Una fermentazione di desideri, prematuramente rigogliosa e perciò impotente e vuota”, scriveva disperato Bruno Schulz. Con lui giace, chissà dove, il suo romanzo che a meno di un miracolo dobbiamo considerare irrimediabilmente perduto. Si intitolava “Il messia”. I pochi che ebbero modo di leggerne delle parti hanno riferito che si trattava di un capolavoro.
Non resta dunque che affrontare i pochi chilometri che ci separano da Boryslaw, la Klondike galiziana, dove invano cercò scampo l’ultima amante di Bruno Schulz, la pittrice Anna Plockier.
(2-continua)

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