La disobbedienza di Abramo

martedì, 19 agosto 2008

isacco.jpgIl languore ferragostano mi impedisce di concentrarmi sull’attualità. Preferisco riproporvi due anni dopo la mia teoria preferita su un mistero biblico: il sacrificio di Isacco. L’articolo è uscito su “Repubblica” nell’aprile 2006.

Ha stampato sul volto il sorriso grato di chi l’ha scampata bella, Wlodek Goldkorn, con quei denti all’infuori che ricordano tanto il suo amico Alexander Langer.
Ne ha ben d’onde. La tragedia europea che Langer volle assumere su di sè fino alla spossatezza, Goldkorn invece la porta già tutta quanta dentro una biografia avventurosa e baciata dalla sorte; ora scritta con pudore, facendo finta che non lo riguardi direttamente, nel saggio “La scelta di Abramo. Identità ebraiche e postmodernità” (Bollati Boringhieri, pagg. 109, euro 12).
Un’autobiografia oggettivata, la definirei, opera di un intellettuale che per sopravvivere non ha avuto bisogno né di tradire né di fare l’eroe, alleluia. E dunque sfugge la tentazione narcisistica del racconto di vita personalizzato, lui che pure potrebbe permetterselo più di tanti altri.
Supplirò alla reticenza di Goldkorn ricordando trattarsi di un ebreo nato in Polonia dopo lo sterminio che pochi anni prima aveva cancellato il 90 per cento dei suoi simili. Un superstite dell’antisemitismo nazista che nel 1967 subirà il nuovo antisemitismo comunista di Gomulka: accusati di “complotto sionista” lui e la sua famiglia dovranno espatriare in Israele. Ma anche qui il dissenso politico e la scelta antimilitarista gli costeranno un po’ di galera fino alla scelta di ripartire, alla volta dell’Italia di cui oggi è cittadino cosmopolita, portandosi dentro i punti di riferimento antichi e contemporanei di un ebraismo in perenne movimento.
Goldkorn racconta la sequenza storica attraverso cui la modernità ha disatteso la sua promessa agli ebrei: la promessa, per chi lo volesse, di sciogliere la propria diversità dentro una cittadinanza comune. Neppure concepibile al tempo dell’antigiudaismo slavo di matrice cristiana, affacciata per la prima volta dall’illuminismo, tale possibilità fu affossata nella “soluzione finale” nazista. Finchè l’ebraismo come insidia minacciosa è ritornato nei diktat omologanti e negli argomenti antimperialisti di molta sinistra, e infine nell’armamentario islamista.
Così la postmodernità ha generato il ritorno a un’ossessione identitaria dentro allo stesso mondo ebraico: un drammatico ritorno al futuro quasi che nel frattempo non fossero cambiati anche gli ebrei –sradicati, marrani, messianici, comunque diversissimi da quel che furono- col dubbio che il loro ricompattamento favorisca soprattutto i nuovi carnefici già lì pronti a colpire.
Del resto, come ricorda Hannah Arendt, quando si è attaccati in quanti ebrei, occorre rispondere in quanto ebrei. Non c’è scampo.
E’ la storia, carissima a Goldkorn, del Bund russo e polacco, il movimento socialista ebraico che predicava la possibilità di andare oltre la diaspora restando se stessi nella propria terra. La tragedia novecentesca darà invece ragione ai sionisti, propugnatori della necessità di un nuovo inizio. Ma per l’appunto di un nuovo inizio si trattava, col messianico padre fondatore David Ben Gurion addirittura temerario nei suoi strappi alla tradizione diasporica. I rabbini non avrebbero mai potuto fondare la nuova Israele.
Con implacabile lucidità, che darà fastidio a tanti ebrei neoconformisti, Goldkorn descrive la retorica sacrificale con cui Israele viene presentato come redenzione e riscatto dell’Olocausto. La Shoah innalzata a prologo della redenzione.
Tesi scomoda perché evidenzia un’ambiguità pseudoreligiosa su cui si pretenderebbe di fondare la nuova identità ebraica. Ma è proprio qui, sull’eterno dilemma della necessità del sacrificio, che il saggio di Goldkorn emoziona e convince. Sulla scelta di Abramo.
Chi non ha provato turbamento di fronte a quel passo della Genesi in cui Abramo viene descritto, almeno in apparenza, disposto a sacrificare al Signore il suo unico figlio Isacco?
C’è da impazzire, di fronte alla sua rassegnazione. Gideon Hausner, il pubblico ministero israeliano del processo Eichmann, non ripeteva forse ai testimoni sopravvissuti al lager sempre quella stessa domanda: “Perché non vi ribellaste?”. Non credo di bestemmiare se riferisco tale interrogativo anche alla rassegnazione di Abramo, quando si sente costretto a sollevare il coltello sul corpo innocente del suo stesso amatissimo figlio.
Un bel film di Henry Bean del 2001, “The believer”, descrive la nevrosi di un ragazzino ebreo che di fronte all’inesplicabilità dell’obbedienza di Abramo, riproposta in lui dalle vittime dei lager condotte come bestiame al macello, giunge a trasformarsi in naziskin.
Adesso Wlodek Goldkorn, non a caso figlio a modo suo del sessantotto polacco, fornisce una risposta sovversiva e affascinante a quel medesimo interrogativo: “In tutte le teologie si dice che Abramo ubbidisce a Dio, mentre in realtà disubbidisce”. Ci racconta un patriarca che osa dialogare fiducioso col Signore, oltrepassando i confini della propria identità, proponendo egli stesso una morale universale che proibisca il sacrificio umano. Senza sospendere né delegare il giudizio sull’inopportunità di quel sacrificio, senza rassegnarsi a rimanere prigioniero di una cieca obbedienza.
La disobbedienza di Abramo –può trovarla incredibile solo chi dimentica come il patriarca già avesse operato uno strappo lasciando la sua terra d’origine e la casa paterna; perché l’identità bisogna cercarla nel futuro, senza paura di sfidare l’ignoto- è la commovente risposta di Goldkorn ai moderni spacciatori di false identità.
Non a caso la sua predilezione va al pensiero di Hannah Arendt, “la più innovativa e creativa dei marrani moderni”, che ammonisce: quando la civiltà entra in crisi, il passato non è in grado di gettare alcuna luce sul futuro.
Nel corso della sua fortunosa traversata in mezzo agli antisemitismi vecchi e nuovi, attaccato in quanto ebreo Goldkorn ha risposto in quanto ebreo. Un ebreo dei giorni nostri. Marrano? Bastardo? Di certo disobbediente, come Abramo.

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