Il vino e gli spacciatori d’identità

mercoledì, 20 agosto 2008

grappolo.jpgQuesto articolo è uscito su “Vanity fair”.
Alzi la mano chi non ha provato fastidio nell’apprendere che la meravigliosa bambina cinese dello stadio olimpico di Pechino faceva solo finta di cantare, rubando la scena a un’altra bambina più brava ma meno telegenica di lei.
Meticci, cosmopoliti, bastardi e infedeli come siamo, pure restiamo aggrappati al mito dell’autenticità. Ci ribelliamo all’idea di una vita artificiale da cui siano espulse per sempre la purezza, la tradizione, la natura. Ma siccome il mercato globale ha già plasmato i nostri gusti e perfino i nostri bisogni, corriamo il rischio di inseguire solo una patetica superstizione.
Per farmi capire meglio, e magari cercare insieme una soluzione a questo malessere esistenziale, vi propongo una storia istruttiva del vino italiano, cioè di un prodotto antico, soggetto alle caratteristiche minerali della terra e alla sapienza contadina, senza le quali ben poco possono le nuove tecniche di lavorazione in cantina. Me ne sono dovuto rendere conto quest’estate in Monferrato, quando la mia vigna è stata afflitta da troppe piogge e da una furibonda grandinata.
Accade dunque che due contrade fra le più rinomate della viticoltura italiana, Montalcino e Montepulciano, siano state oggetto di un’accusa strana. Non certo di adulterazione, chè i loro vini restano sani e squisiti. Pare invece che produttori illustri abbiano violato il disciplinare di produzione facendo ricorso ai cosiddetti “vitigni migliorativi”, come il syrah, il petit verdot, il cabernet, in grado di modificare il Brunello e il Nobile quel tanto che basta per adeguarli al gusto internazionale e quindi favorirne lo smercio sul mercato americano. Quelle ottime bottiglie, dunque, incontrerebbero un successo crescente giovandosi di lievi, sapienti “correzioni”. Più morbidezza, meno acidità. E a dirla tutta, pare che tale prassi sia diffusa anche fra alcuni celebri vignaioli piemontesi.
Dobbiamo scandalizzarci, visto che si tratta comunque di prodotti di alta qualità? O al contrario dobbiamo esultare per il contributo che un “taglio” accurato fornisce al successo internazionale della nostra viticoltura di qualità?
Naturalmente ad arrabbiarsi sono soprattutto i piccoli produttori le cui bottiglie continuano a risentire di sfumature affascinanti, ma anche di variazioni significative, da una vendemmia all’altra: perché il loro lavoro in cantina non può mai prescindere dai capricci di madre natura visto che rispettano integralmente il disciplinare. Se un vino è “in purezza”, cioè figlio di un solo vitigno, ne recherà la magia e l’asprezza. Se invece è un “uvaggio”, cioè l’esito di un’accurata miscela fra due o più vitigni diversi, in ogni caso saranno prodotti di quel particolare territorio, come dichiarato sull’etichetta.
Hanno dato il buon esempio alcuni, purtroppo pochissimi, maestri del vino italiano. Di quelli che possono vendere in anticipo a caro prezzo le loro bottiglie perché hanno un nome garanzia di qualità. Ne conosco uno che sull’etichetta mette ormai solo il suo marchio, non citando più il vitigno che gli ha dato la celebrità, tanto il suo prodotto è squisito comunque.
Onore al merito. Figuriamoci se un infedele come me, circondato da spacciatori di false identità, potrebbe dichiararsi nemico del meticciato e del progresso in materia di vino. A un patto, però: che non mi si voglia vendere una sostanza per l’altra. Usate pure i “vitigni migliorativi”, è roba buona, mica metanolo. Ma per favore ditemelo sull’etichetta, e meglio se dichiarate pure dove sono stati coltivati. Una tale riforma dei disciplinari di produzione avrebbe pure il pregio di lasciare lo spazio che meritano ai piccoli produttori all’antica, ostinati cultori del vino “in purezza”, disposti a guadagnare meno pur di valorizzare le qualità meravigliose del loro territorio. Sarebbe oltretutto una riforma lungimirante, perché se il vino italiano è giunto ai vertici della qualità mondiale lo si deve ai custodi di vigne tramandate per generazioni: alla faccia della tecnica, nessuno potrà sconfiggere il fattore tempo. L’uva migliore è quella generata dalle vigne vecchie di almeno quarant’anni.
Noi cittadini del mondo cerchiamo nella verità l’antidoto ai falsi miti della tradizione. Per questo brindiamo a quella bimba cinese dalla voce di velluto che non ha potuto cantare dal vivo nello stadio di Pechino.

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