Boryslaw, lo shtetl che non c’è più

sabato, 23 agosto 2008

boryslaw.jpgDopo le belle giornate trascorse in Val Badia con David Grossman e la sua famiglia, vi propongo l’ultima tappa del mio viaggio nella Galizia ebraica uscito su “Repubblica”.

BORYSLAW- Volevo mandare una cartolina a mio padre dallo shtetl dove lo portavano fino al 1938 a fare la villeggiatura dell’emigrante. Cioè stare insieme a nonni, zii, cugini con cui non si parlava né ebraico né arabo, ma l’yiddish dei suoi genitori partiti poco più che ventenni per la Palestina e mai adattati veramente al clima e alle abitudini mediorientali, considerandosi polacchi. Raggiungevano Boryslaw d’estate col Simplon Express da Aleppo a Istanbul, da lì in nave sul mar Nero fino a Costanza, e di nuovo sul treno attraverso i monti Carpazi. C’era ancora il tempo –accompagnati dai Lerner e dai Borgman di cui, senza un vero perché, sto cercando le tracce- per un soggiorno termale nella vicina Truskawiec o addirittura nella rinomata Krinica, verso Zakopane e i monti Tatra, località di cui mio padre conserva una tazza con cannuccia di porcellana.
Peccato che l’unica cartolina di Boryslaw esistente riproduca l’orrendo municipio stile sovietico anni Settanta: improponibile a chi ne conservi l’atmosfera stralunata di un paesone –trentamila abitanti, più di un terzo dei quali ebrei- adagiato lungo il fiume Tys’mienica in una pianura verde bucherellata di pozzi petroliferi, con le isbe di legno che risalivano fino alle pendici boscose del colle Ratoczyn.
Il turista della memoria non poteva farsi troppe illusioni. Quando infine l’8 agosto 1944 l’armata nazista si ritirò, non spuntarono dalle foreste e dai nascondigli più di duecento ebrei sopravvissuti: è stato pressoché totale, qui, lo sterminio, un mondo da dimenticare. Le generazioni da cui provengo sono scomparse lassù tra le conifere e le querce, ricoperte da un tappeto di fiori e lamponi. O incenerite nei crematori di Belzec. Quanto alle lapidi dell’antico cimitero ebraico, nel 1959 i sovietici vi hanno costruito sopra una stazione per gli autobus.
Vado dunque per Boryslaw in cerca di una traccia qualsiasi, accompagnato dal ricercatore Alexander Dunai, l’”ucraino buono” conosciuto attraverso l’avvincente diario di Daniel Mendelsohn, “Gli scomparsi” (Neri Pozza). Siamo muniti solo di fotografie sbiadite e di una vecchia mappa trovata su www.jewishgen.org in cui figurano tre case dei Borgman (la famiglia di nonna Mamcia) sulla via Potok, perpendicolare alla strada per Drohobycz, e non distante una casa dei Lerner (la famiglia di nonno Elias). Devo fare uno sforzo per immaginare, cominciando dall’odore del petrolio e dell’ozocerite (una cera naturale) che a metà dell’Ottocento trasformarono la campagna in zona mineraria, attirando gli ingegneri da Leopoli e perfino da Vienna, e con loro migliaia di lavoratori, macchiando di una patina oleosa le acque del Tys’mienica in cui pure si continuava a pescare. I cicli economici alterni provocarono disoccupazione e migrazioni, ma finanziarono la costruzione di chiese, sinagoghe, scuole, un centro d’assistenza sanitaria per i poveri, un cinema, la compagnia teatrale, il campo sportivo. Si narra di un’ottima squadra di calcio ebraica, il “Kadimah”, vincitrice del suo girone nel campionato polacco di serie C alla fine degli anni Venti. I festeggiamenti si svolgevano al caffè Corso, famoso per la cioccolata Danusia, i gelati e le belle ragazze.
Le antiche fotografie dei lebaks, i lavoratori del petrolio, mostrano figure lacere con le spalle piegate dai secchi di bitume aggirarsi fra una costellazione di strani pozzi con le braccia metalliche oscillanti incessantemente su e giù. La “California dei Carpazi”, dopo l’epoca pionieristica della corsa galiziana all’oro nero, nel ventennio 1919-39 forniva alla Polonia il 75% del suo fabbisogno energetico. Pare che gli zii Borgman girassero con dei pistoloni a proteggere dai furti di materiale i pozzi Mira e Laura, sotto l’inflessibile comando della madre Chaya.
Ho già descritto lo zelo con cui Alexander Dunai ci introduce nelle poche case dove si conserva memoria dell’anteguerra. Volodymyra Petryshin, Vera Bassarab, Larysa Cimejko, vecchie dalla pelle azzurrognola e maculata prendono rispettosamente in mano le fotografie. Ne scaturiscono dialoghi commoventi ma sempre vaghi sui vicini di casa scomparsi d’un tratto. E così, in assenza di un contatto diretto che non sia la bianca abitazione in legno di via Potock forse appartenuta alla nonna, per forza succede che il bisogno di conoscere la famiglia e il luogo in cui avresti dovuto nascere degeneri in un’altra, macabra immaginazione. Cosa gli sarà successo? Otto giorni dopo l’inizio dell’invasione dell’Unione Sovietica, che paura avranno sentito i miei parenti il 1 luglio 1941, assieme al fragore dei carri armati tedeschi che circondavano Boryslaw e Drohobycz? Già l’indomani si scatenò il primo selvaggio pogrom, opera dei compaesani ucraini che lo dedicarono al leader nazionalista Symon Petliura. L’assalto ai vicini di casa, con tanta dolcezza descritti: “Qui intorno vivevano solo ebrei, mia madre faceva la spesa nel magazzino di Rafael Borgman…”. Barbe tagliate, percosse, giovani denudate e umiliate, vecchi trascinati fuori dalle case. Un odio antico si rinnovava nella falsa accusa di complicità con l’invasore russo nel biennio del patto Ribbentropp-Molotov. Cosa sarà accaduto nel cortile del macello pubblico dove furono rinchiuse le prime centinaia di vittime, prima della morte liberatrice? Oggi hanno affisso una piccola lapide in quel teatro di giochi sadici, dove si consumò il primo rituale di sterminio e dove scelse di essere sacrificata anche Dinka Rapp, la più bella fra le belle, che aveva rifiutato di dormire con un ufficiale tedesco.
Ma la complicazione della storia ucraina fa sì che per salire alla foresta di Ratoczyn, dove il 28 novembre 1941 ne fucilarono altri millecinquecento, bisogna passare di fronte al monumento dedicato a Stephan Bandiera, cioè il capo dell’Oun (il movimento nazionalista) onorato tuttora come eroe dell’indipendenza. Perfino il mio amico Dunai fatica a riconoscerne l’antisemitismo: nella coscienza popolare il nemico principale resta il terrore rosso di Stalin, responsabile di sofferenze atroci, iniziate da una carestia che provocò sei milioni di morti. L’indipendenza conquistata nel 1991 rimuove il secolo in cui –come dice la storiella- un tizio poteva nascere austriaco, studiare in Polonia, sposarsi in Urss, lavorare in Germania e poi tornare sotto Mosca, senza mai lasciare il suo villaggio.
E’ dunque solo da testimonianze esterne che si ricostruisce la cronologia delle successive due, tre, quattro aktion: denominazione burocratica di un genocidio pianificato come uno smaltimento. Nel gennaio del ’42 il rastrellamento dei vecchi inabili, delle donne e dei bambini. Il 25 marzo, stivati nei carri merci, la novità di migliaia di prigionieri trasportati nelle camere a gas di Belzec. Tra Boryslaw e Drohobycz, un altro convoglio di seimila diede l’avvio alla liquidazione definitiva dei ghetti. Il 23 e 24 ottobre furono eliminati i membri della polizia ebraica. Solo gli schiavi dei pozzi, delle raffinerie e delle miniere vennero tenuti in vita fino al luglio del ’43. Non mancarono, fra le vittime, i 132 zingari residenti nello shtetl.
Fino agli anni Sessanta, quando a Tel Aviv sorge l’associazione “Per non dimenticare Boryslaw”, nessuno desiderava ricordare la cancellazione di quel mondo. Bisognerà attendere l’estate 1978 perchè a Stoccolma venga convocata una riunione di nostalgici convenuti dal Kazakhstan, dagli Usa, dal Sudamerica, dall’Australia, dalla Polonia, da Israele. Una novantina di loro tornerà a Boryslaw nel 1993 per incontrare le poche famiglie che prestarono loro soccorso rifornendoli di cibo nei boschi o nascondendoli in rifugi sotterranei. Mi è rimasta impressa la fotografia di Shevach Weiss, divenuto speaker del Parlamento israeliano e poi ambasciatore a Varsavia, che s’infila di nuovo nella cantina alta un metro e 20 centimetri di casa Matcisin, dove trascorse tre anni della sua infanzia col fratello Aron, divenuto ricercatore di Yad Vashem.
Quale terra promessa m’illudevo di recuperare, in un luogo simile, a giustificazione dei residui gergali che infarciscono il lessico familiare? Certi ancestrali “oy vey smir, ach, nu, oyvavoy”…
Tenta di rispondere Jonathan Safran Foer, nel suo romanzo “Ogni cosa è illuminata”, quando infine l’unica sopravvissuta dello shtetl consegna al giovane discendente venuto da New York “la scatola del Casomai”, zeppa di miseri cimeli. Perché l’hai chiamata così, le chiedono? “Casomai qualcuno un giorno facesse una ricerca”.
Devono essercene parecchie seppellite qui intorno di scatole Casomai. Irrecuperabili. Brancoliamo nella nostalgia di luoghi mai conosciuti, senza neppure più la speranza letteraria di una vecchia in grado di consegnarceli.

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