Benedetto XVI e l’amore dei giovani

giovedì, 9 ottobre 2008

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.

Se i preti facessero l’amore, sarebbe diversa la loro idea dell’amore? Lo so che il solo parlarne dà luogo a stolte, pruriginose ironie, ma possiamo ugualmente chiedercelo con il dovuto rispetto: se il papa della Chiesa di Roma conoscesse l’intimità di una donna, perché mai quell’incontro carnale dovrebbe deteriorarne la sua spiritualità, e non piuttosto elevarla? Il testo biblico è davvero istruttivo quando sceglie quel verbo, e non altro, per introdurci nella dimensione dell’eros: conoscere una donna.
Le parole sono importanti. Penso ai devoti che si rivolgono al pontefice con un’espressione al tempo stesso magnifica e confidenziale: Santo Padre. Ma può essere a noi padre chi non abbia mai conosciuto una madre? Rispetto la vocazione ascetica prescelta da numerosi mistici come passaggio d’introspezione e trascendenza. Ma sono sempre stato convinto che nel culmine della relazione sessuale, proprio in quell’abbandono primordiale donato al maschio dalla femmina che si apre e lo accoglie in una dimensione ancestrale, impossibile da vivere altrimenti, fino a sprofondarvi e a sciogliersi, proprio così si realizza ben altro che la vituperata mera carnalità.
Vorrei dire a Benedetto XVI e ai preti cattolici: i giovani che fanno l’amore, molto più liberi in ciò che nei secoli passati, davvero generano amore spirituale quand’anche non generino figli. Il pensiero che la spiritualità e la fede siano il prodotto della rinuncia all’eros, del rinvio della biblica conoscenza, vi impedisce di riconoscere il bene e il bello tra i giovani. E rende meno credibile pure la denuncia delle malattie da cui è afflitto l’eros nella nostra società: feticismo, pornografia, stupro, caduta del desiderio.
Dire ai giovani che non è vero amore il loro fare l’amore, è un falso evidente che preclude ogni successiva riflessione critica sulla mercificazione del sesso.
Significativa è la coincidenza di quella data, il 1968, oggi vituperato dal senso comune reazionario come l’anno del permissivismo, la rivolta da cui scaturiscono i vizi del nostro presente. Fu proprio in quell’anno che promulgando l’enciclica Humanae Vitae papa Paolo VI vietò ai cattolici l’uso della pillola anticoncezionale e gli altri metodi non naturali di contraccezione.
Conosciamo tutti, e lo stesso Benedetto XVI l’ha lealmente ammesso, quanto profonda sia stata la divaricazione tra la Chiesa e i fedeli provocata da quella prescrizione che contrasta –si badi bene- non lo spirito libertario del tempo contemporaneo, ma un’idea più elevata di amore, nel quale davvero fisicità e spiritualità possano superare una scissione assurda, negatrice della Genesi stessa che ci onora perché fatti a Sua immagine e somiglianza.
Mi commuove la serenità del dissenso espresso pubblicamente, senza astio ma con severità, da un pastore d’anime consapevole di essere vicino alla fine dei suoi giorni: Carlo Maria Martini. Un cardinale che non dimentica di avere fatto il vescovo nella metropoli contemporanea portandovi il dono di una rilettura biblica continuamente reinterpretata attraverso l’incontro con le persone. Martini non ha paura a dire che un giorno la Chiesa ammetterà il sacerdozio delle donne e che i troppi divieti dogmatici della sua morale sessuale sono privi di solida motivazione teologica, dunque transitori. Prova disagio al cospetto di una Chiesa divenuta in Italia molto più ricca di risorse materiali ma anche per questo più distante dalle aspettative, come succede quando si proclamano valori senza testimoniarli.
Un amico parroco mi racconta di certi giovani sacerdoti della nuova leva tradizionalista che si compiacciono di esercitare con severità prescrittiva la loro missione, ma nel segreto della confessione poi gli rivelano tormentose relazioni clandestine. Perché anche i preti, giustamente, cercano l’amore. Quello che ci è dato, felicemente. Non sarebbe un mondo migliore quello in cui i giovani facessero meno l’amore.

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