La crisi e il governo Tremonti-D’Alema

mercoledì, 15 ottobre 2008

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Finita è la nostra Belle époque. E nel mentre che i risparmi se ne vanno in fumo, mi documento sui libri di storia della Grande Depressione americana seguita al crollo in Borsa del 1929. Nei due anni successivi al crac finanziario, la produzione Usa calò di un terzo. Dimezzate le vendite di automobili. Nel 1932 rimase senza lavoro il 27% della manodopera statunitense. Cominciò il tempo della fame e delle migrazioni interne. Intanto la crisi mordeva l’Europa. Quell’anno la Germania si ritrovò con il 44% di disoccupati. Il crollo del commercio mondiale (meno 60% fra il ’29 e il ’32) incoraggiò le tentazioni protezionistiche e poi la reazione totalitaria, fino alla guerra.
Toccatevi pure, ma è bene sapere di che cosa parliamo quando la crisi della finanza genera recessione economica, e la recessione determina una Grande Depressione. Sono faccende lunghe, noi ci siamo dentro solo da poco più di un anno e ignoriamo quali potranno essere gli effetti sulla nostra vita quotidiana. Solo nel 1954 Wall Street tornò ai livelli del 1929. Ma quel che conta di più, gli Stati Uniti ci misero ben 12 anni, dal ’29 al ’41, per recuperare il medesimo prodotto interno lordo.
I nostri sentimenti oscillano come le quotazioni di Borsa. Scrivo all’alba di un lunedì che si spera meno nero del precedente, grazie al piano europeo di salvataggio pubblico per le insolvenze bancarie. Il fuso orario ci regala il sorriso di un segno più sulle piazze asiatiche, incrociamo le dita sperando che regga fino alla mezzanotte newyorkese. Ma l’inesorabilità con cui questa crisi annunciatissima è arrivata, trovandoci impreparati perché un conto è prevederla, ben altro è sapere come affrontarla, ci obbliga comunque a ragionare sui cambiamenti della nostra vita, dei nostri consumi, delle nostre abitudini.
Prevedo che gli stilisti lanceranno una moda squatter sul modello delle celebri foto Anni Trenta di Dorothea Lange e Walker Evans: non siamo più abituati a vedere dei poveri biondi con gli occhi azzurri, vero? Romanzieri come Cormac McCarthy hanno già ricominciato a narrarci il vagabondaggio derelitto sulle strade d’America, uomini, topi e furore alla John Steinbeck. Hollywood non ci metterà molto a inventarsi il nuovo John Ford. Mentre tutti speriamo che il democratico Barack Obama sappia emulare le gesta keynesiane del più illustre predecessore Franklin Delano Roosvelt.
Mi fermo qui con il gioco inquietante delle analogie. Non vorrei seguirne il tragitto fino alla penisola italiana, già fin troppo mortificata da artificiali nostalgie fasciste. La domanda da noi è semplice e brutale: resisteranno la Fiat, la Telecom e le altre grandi aziende svalorizzate dalla Borsa e minacciate dalla crisi dei consumi? Perché è vero che la nostra resta, insieme alla tedesca, l’economia più manifatturiera d’Europa (vuol dire che abbiamo molte fabbriche, molti operai, e un po’ meno finanza degli altri). Ma è proprio tale caratteristica a farmi temere che qui le sofferenze sociali possano diventare più acute. Tanto più che il debito pubblico già sovraccarico limiterà il ricorso agli ammortizzatori sociali. Salvataggi in stile Alitalia, con i debiti e gli esuberi di personale a carico della collettività, difficilmente sono ripetibili se arriva la recessione.
Era inevitabile in un paese marginale e iperprotetto come il nostro che tra le macerie dell’economia riprendessero peso campioni nazionali specializzati nel tirare a campare. Che al tavolo governativo per l’emergenza nazionale sieda una sola “banca di sistema”, la Mediobanca di Cesare Geronzi –destinata a un ruolo di tramite fra la politica e l’economia- suona come una conferma. Si tratta di dettagli provinciali, ma lasciano presagire quali saranno gli equilibri del potere futuro, nel malaugurato caso si avverino le previsioni di crisi violenta e prolungata. Azzardo un pronostico (sperando di essere smentito dalla realtà). Se la leadership dell’ottimista a oltranza Berlusconi risultasse compromessa da un impoverimento generalizzato degli italiani, allora verrebbe il turno di Giulio Tremonti. Il quale sta già cercando un patto con la Cgil, con cui condivide l’interesse primario alla tutela dei posti di lavoro. Il dialogo ininterrotto con Massimo D’Alema rivela già l’intenzione tremontiana di fronteggiare l’emergenza con un governo di unità nazionale. Potrebbe rivelarsi una scelta obbligata, il male minore. Ma spero tanto che l’esperimento non si renda necessario.

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