Il nostro futuro è la “razza Obama”

giovedì, 30 ottobre 2008

Questo articolo è uscito su “Repubblica”.
E’ possibile, anche se per nulla scontato, che nei giorni prossimi un nero, un meticcio, un sanguemisto –fate voi- venga eletto al vertice della prima potenza mondiale. Se tale evento si verificasse -a dispetto delle resistenze e dei pregiudizi che nessun sondaggio d’opinione è in grado di registrare, perché impronunciabili- avrebbe conseguenze culturali e politiche straordinarie. Ben oltre i confini degli Stati Uniti d’America.
Per intuirlo, basta leggere come lo stesso Barack Hussein Obama Jr. desidera presentarsi: “In quanto figlio di un nero e di una bianca, nato nel crogiuolo razziale delle Hawaii, con una sorella per metà indonesiana ma in genere scambiata per messicana o portoricana, e un cognato e una nipote di origini cinesi, con alcuni consanguinei che assomigliano a Margaret Thatcher e altri così neri da poter passare per Eddie Murphy, tanto che i raduni familiari assumono l’aspetto di una riunione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, non mi è mai stato possibile limitare la mia lealtà su base razziale o misurare il mio valore su base tribale”.
Mentre noi ci gingilliamo ancora con la razza Piave e l’identità padana, l’America non vive più la razza Obama come corpo estraneo e dunque può aspirare al superamento simbolico dei conflitti razziali che pure hanno contraddistinto tanti passaggi drammatici della sua storia. Permangono negli Usa, certo, e anzi si acutizzano disuguaglianze sociali a sfondo etnico. Ma è ancora Obama a dirci la rivoluzione che la sua leadership potrebbe favorire: “Ho fratelli, sorelle, zii e cugini di ogni razza e colore, sparsi su tre continenti, e finchè avrò vita, non dimenticherò mai che in nessun altro Paese della terra sarebbe possibile una storia come la mia. Non è la storia di un classico candidato. Ma ha impresso nel mio patrimonio genetico l’idea che questa nazione è più della somma delle sue parti, che siamo molte persone, ma un unico popolo”.
Tanti americani, un unico popolo meticcio. La fiducia cioè nella possibilità che l’identità nazionale si rafforzi come esito della fusione tra diversi. Quale stridente contrasto con le parole grossolane pronunciate a Rimini nell’agosto 2005 da Marcello Pera, all’epoca presidente del Senato: “In Europa la popolazione diminuisce, si apre la porta all’immigrazione incontrollata, e si diventa tutti meticci”.
Certo la razza Obama –mi permetto di usare questa parola imbarazzante perché è lo stesso candidato nero a farla propria con sapiente disinvoltura nei suoi discorsi- costringe la classe dirigente Usa a una revisione culturale della propria fisionomia. Il teorico dei conflitti di civiltà, Samuel P. Huntington, nel suo saggio su “La nuova America” (Garzanti), lamenta il fatto che “le identità subnazionali, binazionali e transnazionali” abbiano eroso “la preminenza dell’identità nazionale”. Soprattutto dopo l’11 settembre 2001, per Huntington non può esistere altra via di rafforzamento del “credo americano” che prescinda dalla “cultura anglo-protestante” su cui si è fondata la nazione per ben tre secoli. Obama, lungi dal produrre una rottura con la tradizione e i valori occidentali finora incarnati nei “WASP” (White Anglo-Saxon Protestant), ne rappresenta la storica evoluzione cosmopolita. Convivono in lui l’afflato religioso dei coloni che fondarono l’America, la sensibilità di chi ha vissuto discriminazioni anche sulla sua pelle, la memoria di un padre africano e di un’infanzia indonesiana. Ciò che non gli impedirà, se eletto, di difendere gli interessi statunitensi nel mondo, più o meno efficacemente, come i suoi predecessori. Impersonando però una novità generazionale planetaria, figlia dei secoli delle migrazioni di massa. Obama anticipa il nostro comune futuro. Obama è un accadimento dirompente. Richiamerebbe, se eletto, le nostre più divertenti fantasie sul “chissà quando avremo un papa nero”.
Piace immaginare che un presidente degli Stati Uniti afroamericano, meticcio, sanguemisto otterrebbe udienza diversa –almeno in principio- dal Medio Oriente all’Africa. Sarò ingenuo, ma oso sperare che costringerebbe a una maggior pulizia di linguaggio certi energumeni del “politicamente scorretto” che per sembrare più vicini al popolo ironizzano in tv sull’”abbronzatura” di chi non ha la pelle bianca come loro. Ciò che più conta, retrocederebbe ad anticaglia improbabile tutta la retorica sulla difesa delle identità minacciate di contaminazione. Dubito che i nemici nostrani del meticciato, spacciatori d’identità artificiali e inautentiche, potrebbero permettersi di dare del bastardo al presidente della maggiore nazione occidentale. Un buon sostegno per chi cerca di tenere separata la genetica dalla politica.
Troppo bello per essere vero? E’ per questo che serpeggia la paura che Barack Hussein Obama Jr. possa essere assassinato in quanto anomalia insopportabile, nel tempo dei conflitti di civiltà che regalano spazio ai predicatori di una ormai impossibile separazione etnico-religiosa. E’ per questo che sull’elezione di Obama, nonostante i favori dei sondaggi, aleggia l’incognita del non detto razzista, presente anche in una quota ristretta (ma potenzialmente decisiva) dell’elettorato democratico. E’ per questo che taluni paventano, nel caso di un suo insuccesso, la recrudescenza dei conflitti razziali.
Obama si candida alla Casa Bianca grazie a un talento e un carisma che gli hanno già consentito di frequentare le migliori università e di soppiantare l’establishment del Partito democratico. E’ riuscito a presentarsi come un Giosuè in grado di guidare il popolo nuovo, definitivamente riunito oltre la frattura tra i padri costituenti e il secolo della schiavitù. Con il voto di martedì prossimo l’America si trova in bilico sul crinale di un passaggio d’epoca che ha rilevanza mondiale.

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