Quelle sante botte al Santo Sepolcro

lunedì, 10 novembre 2008

Questo articolo è uscito su “Repubblica”.
D’accordo, è dovuta intervenire la polizia dei “fratelli maggiori” ebrei a sedare quella rissa fra le reliquie trasmessa in mondovisione che pare inventata di sana pianta dagli anticlericali. E si dirà che vanno avanti a darsele così da secoli le trenta comunità cristiane di Gerusalemme, tanto da non racimolare più di quindicimila fedeli nella città santa del supplizio e della resurrezione di Gesù.
Eppure la Basilica del Santo Sepolcro profanata di nuovo ieri, in una domenica festiva, non merita la cattiva fama circolante fra i pellegrini che la descrivono come luogo privo di pathos, funestata com’è dal cicaleccio delle comitive pronte a scattare foto sulla scala del Golgota e perfino nella cripta tombale; deturpata da nuove pareti divisorie nelle aree contese tra cattolici e ortodossi; mentre sul tetto somigliante a un villaggio africano si guardano in cagnesco i copti e gli etiopi.
Nulla di simile sarebbe concepibile al Muro del Pianto, dove pure gli ortodossi cercano di vendere indulgenze agli ebrei più sprovveduti. Né tanto meno sulla Spianata delle Moschee, che i non musulmani ormai possono rimirare solo dall’esterno. Ma è proprio la vitalità di quel conflitto fra cattolici, copti e quattro diverse chiese ortodosse (i protestanti ne sono tagliati fuori) a fare del Santo Sepolcro qualcosa di diverso da un monumento. E’ un luogo moderno, privo di fascino architettonico o tanto meno artistico, destinato probabilmente a subire nuovi crolli e nuovi incendi come già più volte nel passato, che trae santità dalla sua prosaicità. Non si dispiaceranno gli amanti della solennità liturgica vaticana se affermo che in quelle barbe strappate, nella povertà delle vesti monacali e nella modestia acrilica dei suoi arredi sacri c’è forse una fotografia più veritiera della cristianità contemporanea, ben al di là della pompa magna di San Pietro.
La leggenda vuole che nell’estate del 637, conquistata Gerusalemme, il primo vicario di Maometto, califfo Omar Ibn Kattab, ebbe la lungimiranza di non fermarsi a pregare nella basilica fatta costruire da Sant’Elena, madre di Costantino, sul luogo della Passione. Altrimenti lo avrebbe reso sacro all’islam, rendendolo oggetto di contesa come in effetti è accaduto per la Spianata del Tempio ebraico su cui sorsero la Moschea al-Aqsa e la cupola dorata del Duomo della Roccia. Dunque nessuna controversia con i musulmani sul Sacro Sepolcro. Ma quattordici secoli fa i cristiani erano già divisi come lo sono oggi. Si è rivelata saggia dunque la scelta di affidarne la custodia alla famiglia musulmana dei Nuseibeh, che tuttora la detiene. L’unico periodo in cui venne meno la sovrintendenza dei Nuseibeh, cioè il breve regno latino imposto dai crociati su Gerusalemme (1099-1187), coincise infatti con una sottomissione feroce della Chiesa bizantina. Lo scisma si manifestava violento proprio là dove il cristianesimo fu generato, avviando l’opera di dispersione per cui oggi i seguaci di Gesù restano solo l’1% degli abitanti del Medio Oriente.
Neanche la Basilica della Natività, nella vicina Betlemme, è rimasta immune da una contesa perimetrale capace di accendere ostilità furibonde e di degenerare in colpi di mano. Ma è il Santo Sepolcro –la cui corrispondenza reale al luogo in cui si consumò la Passione del Cristo rimane peraltro dubbia- a ribollire nei secoli come luogo controverso in perenne evoluzione. Non riuscirà mai a diventare un monumento vincolato dalle Belle Arti. La sua mappa interna sarà eternamente ridisegnata dall’irrequietezza cristiana e dal cemento. Per questo le botte da orbi il giorno dell’Esaltazione della Croce possono essere intese come scandalosa caduta di empietà. Ma più saggio sarebbe intenderle come urlo di fede disperata, inelegante ma vitale, l’anelito di chiese millenarie che non meritano di essere derubricate a folklore.
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