La recessione che ci divide

martedì, 25 novembre 2008

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Ora lo abbiamo capito a che cosa serviva la flessibilità, cioè tutti quei contratti a termine, parasubordinati, interinali grazie ai quali la disoccupazione si è quasi dimezzata in un decennio (dall’11% al 6%): di fronte ai primi morsi della recessione, le aziende possono rispedire a casa quei dipendenti senza troppe formalità. La Cgil calcola che a dicembre resteranno senza lavoro circa 400 mila precari italiani, un decimo del totale, ben ripartiti fra settore privato e pubblico impiego. Ma il 2009 promette di essere ancora peggio.
Certo un liberista (specie diffusissima fino a ieri, oggi in via d’estinzione) potrebbe considerarlo un passaggio doloroso ma proficuo di “distruzione creatrice” del capitalismo, per dirla con la formula classica di Joseph Schumpeter: chiudono attività produttive obsolete, ma ne sorgeranno di nuove, più competitive e redditizie. Magari fosse così. Detroit ha paura del fallimento della General Motors perché dopo cent’anni non ha proprio idea di quel che si farà al posto delle automobili. Nel loro piccolo esprimono la stessa incertezza le famiglie operaie bergamasche della Val Seriana che vedono chiudere fabbriche tessili in cui hanno lavorato per generazioni; e i metalmezzadri marchigiani di Fabriano che assistono stupefatti al declino degli stabilimenti Merloni, parte essenziale del loro paesaggio: frigoriferi e lavatrici di colpo non si vendono più. Come le automobili, e infatti trema di nuovo la Fiat, intensifica il ricorso alla cassa integrazione e spera in un sostegno di denaro pubblico. Perché le banche sì e le industrie no?
Ho invitato in tv alcuni di questi lavoratori, famiglie intere dipendenti dal medesimo stabilimento in crisi, guardate in cagnesco dall’istituto di credito presso cui avevano acceso il mutuo, ridotte a contare gli euro di cassa integrazione a poche centinaia. Ma siccome ho la faccia tosta, gli ho fatto notare che dovevano considerarsi ancora fortunati rispetto ad altri lavoratori presenti anch’essi nello studio dell’Infedele.
Di chi si tratta? Ma li conoscete benissimo, non mancano tra i nostri lettori. Sono (siete?) la nuova categoria dei “senza rete”, cioè senza alcun sussidio quando perdono il posto. In genere più giovani, spesso più qualificati, ma dotati di una virtù ancora più cara ai datori di lavoro: il loro contratto scade di anno in anno, basta non rinnovarlo per ridurre la manodopera senza costi aggiuntivi. E’ andata così all’Alitalia: mentre per gli esuberi dei lavoratori a tempo indeterminato è stato necessario strapagare fino a sette anni di sussidio (l’80% di stipendi mediamente elevati), i loro colleghi che svolgevano identiche mansioni ma col contratto a termine si trovano quasi tutti già a spasso senza un euro di sostegno. Va così in molti stabilimenti Fiat, da cui stanno uscendo a migliaia i precari che vi lavoravano da anni. So di un call center, l’Omnia di Palermo, i cui dipendenti sono stati licenziati via sms, e senza neanche tvb. Ma succede lo stesso anche con lavoratori convinti fino all’ultimo che a tutelarli sia il loro stesso titolo di studio: gli ingegneri. La Motorola, multinazionale dei telefonini tra le più ricche e innovative, ha deciso di chiudere tutti i suoi stabilimenti europei. Così 350 ingegneri a Torino si ritrovano per la strada e scoprono di avere fatto un pessimo affare rinunciando per snobismo alla tutela sindacale: i manager di Chicago gli avevano fatto il contratto artistico dei lavoratori dello spettacolo, e non hanno versato nulla nel fondo cassa integrazione. Risultato: i licenziati non hanno diritto a nulla, nonostante gli anni di Politecnico.
Forse alla fine di questa settimana il governo stanzierà un miliardo di euro per fornire qualche sussidio ai “senza rete”. Ma si tratta di un rimedio parziale e tardivo. Basti pensare che in Italia solo il 20% dei disoccupati dispone di un sussidio che invece è generalizzato in quasi tutti gli altri paesi europei. Questa crisi sta rivelando ingiustizie e disuguaglianze di trattamento che non miglioreranno la reputazione dei sindacati (troppo comodo difendere solo i “garantiti” della tua base di consenso), degli imprenditori e dei partiti politici.

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