Gaza, all’inferno senza ritorno

martedì, 6 gennaio 2009

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Ho tanta famiglia e amici in Israele, in ebraico ho pronunciato le mie prime parole, lì sono nati i miei genitori. Potete immaginare, dunque, lo scrupolo che mi coglie prima di criticare l’operazione “Piombo fuso” (che nome terrifico!): e se avessero ragione Olmert, Livni, Barak? Se la loro durezza davvero servisse a debellare la minaccia costituita da Hamas nei confronti degli israeliani, ma anche dei palestinesi di Gaza e di tutti gli arabi moderati? Se fosse la volta buona, studiata per mesi dall’intelligence, di mettere a frutto la superiorità militare di un esercito terribile ma non criminale, nei confronti di guerriglieri fanatici pronti a tutto?
Siccome ho ben presenti le cifre dei massacri perpetrati in vari teatri di guerra lontani dalla luce dei riflettori, così come le esecuzioni di migliaia di civili al giorno di cui furono vittime altri popoli (tra cui quello ebraico) nella storia recente, oso relativizzare pure il numero delle vittime di Gaza. Per quanto ingiustificabili siano le uccisioni “collaterali” tra la popolazione civile, e per quanto mi turbi la trasformazione in carne da macello delle reclute di Hamas, dico a me stesso che l’esercito d’Israele finora è riuscito a fare molte meno vittime tra i civili di quanto non sia accaduto mediamente nelle guerre da un secolo a questa parte. Ciò non significa che Tsahal sia un esercito di “buoni”. La guerra prolungata, il terrorismo, l’aver visto cadere negli attentati tante persone care, ne ha inferocito le strutture portanti sicchè troppo spesso ne vengono denunciati eccessi e comportamenti sadici. Il conflitto mediorientale peggiora chi lo vive, soprattutto da quando se n’è esasperata la dimensione religiosa, e illudersi di preservare al suo interno una garanzia di rispetto umano diviene sempre più arduo. Ma non credo di illudermi se dico che limitare il numero delle vittime innocenti rientra ancora fra le priorità dello stato maggiore israeliano.
Lo scrupolo che nasce in me dalla condivisione di un destino e dalla familiarità con chi vorrebbe poter vivere Israele come un paese normale, alla fine però non mi impedisce di pensare che il governo di Gerusalemme è stato trascinato nell’errore da un nemico che ne conosce troppo bene i punti deboli.
La gioventù d’Israele non coltiva più il mito dell’eroismo in una guerra divenuta sempre più sporca. Di ciò l’opinione pubblica è consapevole, dunque preoccupata. Ogni tanto ha bisogno di sentirsi rassicurata sulla forza del proprio Stato, vuole illudersi che l’invincibilità del suo sistema difensivo sia rimasta immutata nel corso dei decenni. I residenti delle città meridionali, esposti ai missili di Hamas, patiscono lutti e danni inferiori a quelli sopportati molto più a lungo dai loro concittadini della Galilea. Ma la fragilità psicologica e l’esasperazione rendono improponibile lo spirito di sacrificio mostrato dalla popolazione nei primi vent’anni di vita dello Stato. Ciò è ben comprensibile: Israele ha compiuto sessant’anni e non ne può più di essere considerato un’entità statale giovane e provvisoria.
Temo, in definitiva, un conflitto destinato nuovamente a prolungarsi e diventare cronico. Spero di sbagliarmi, ma considero inverosimile una rapida vittoria militare su Hamas, se non altro perché Hamas è organizzazione radicata al di là della sua dimensione militare. Sconforta constatare che l’unico modo per recuperare consensi elettorali nell’Israele del 2009 sia, per un leader politico, sfoderare una guerra senza compromessi, tale da far impallidire i concorrenti.
Se Israele non riuscirà a infliggere una sconfitta cocente a Hamas, gliene verrà una crisi esistenziale peggiore di quella vissuta dopo la guerra libanese del 2006. Ma per schiacciare Hamas, impresa difficilissima, bisogna essere disposti a pagare un alto prezzo di sangue, sia tra i propri soldati sia tra i civili palestinesi. Così Gaza, che per una settimana è parsa solo un bersaglio, potrebbe trasformarsi in una trappola micidiale.

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