La piazza araba e la nostra democrazia

mercoledì, 7 gennaio 2009

Questo articolo è uscito su “Repubblica”.
Nel dolore e nella rabbia per le vittime palestinesi di Gaza, registriamo la novità di una piazza araba che ormai si manifesta su entrambe le sponde del Mediterraneo con forti analogie, unificata dal medesimo abuso strumentale della religione.
In assenza di organizzazioni democratiche e rappresentative degli immigrati, si candidano a leader della loro protesta gli imam di una fratellanza musulmana ideologicamente assai prossima a Hamas; legittimati da una predicazione seminascosta, catacombale, stoltamente favorita da istituzioni pubbliche che disseminano di ostacoli il libero esercizio del culto islamico. Questi portavoce dell’affiliazione per categorie religiose, brutalizzano e deformano le stesse comunità immigrate, sollecitandole a vivere l’Italia come padrona ostile da cui mantenersi separati, anziché rivendicare diritti individuali di cittadinanza.
Ormai costoro sono in grado di egemonizzare le manifestazioni anti-israeliane fino a ieri organizzate dalla sinistra comunista. Così hanno trasformato i cortei in processioni, al grido di “Allah hu akbar” (Dio è grande), inneggiando alla santità della guerra contro l’”empietà sionista” e infine genuflettendosi in preghiera verso la Mecca. L’escalation dalle bandiere israeliane bruciate in piazza fino al tentativo di appiccare il fuoco alle sinagoghe, come già sta accadendo in altri paesi europei, è sequenza già fin troppo prevedibile.
Tocca fare i conti con una cultura reazionaria, separatista, che politicizza la religione come vessillo identitario antioccidentale, strumentalizzando e perciò bestemmiando il nome del Signore. Trent’anni dopo la grandiosa rivoluzione iraniana del 1979 con cui s’impose il cupo regime degli ayatollah –diffondendo nel mondo musulmano la falsa prospettiva dell’islam politico come energia capace di far girare all’indietro la ruota della storia- adesso il fondamentalismo si offre ai nostri vicini di casa immigrati con la pretesa di rappresentare l’unica alternativa alla sottomissione.
E’ davvero ineluttabile questa sconfitta della laicità che taglia fuori dalla protesta contro la guerra le pur numerose voci di buon senso democratico, e calpesta la speranza di un dialogo interconfessionale? No, rassegnarsi al contagio mediorientale del multiculturalismo europeo, sarebbe da irresponsabili.
Tocca in primo luogo alle forze politiche e alle associazioni che si battono per l’integrazione sociale e civile degli immigrati far propria questa sfida culturale. Resa ancor più ardua dalla presenza nel governo di centrodestra di veri e propri sobillatori della contrapposizione. Come dimostra la scelta di replicare all’integralismo con la proibizione di edificare moschee degne e adeguate.
I giovani musulmani protagonisti delle genuflessioni sul sagrato delle cattedrali di Milano e Bologna, sono reduci da un Ramadan di vagabondaggi umilianti fra tecnostrutture e garage, inseguiti dai divieti. La loro rappresentanza non è interamente ascrivibile al clero integralista. Andrebbero valorizzati i ripensamenti di chi abbandona le posizioni radicali del passato in cerca di un dialogo proficuo, come Abdel Hamid Shaari, il direttore del Circolo islamico milanese di viale Jenner, che due anni fa aderì a una manifestazione contro la politica antisemita dell’Iran promossa dalla Comunità ebraica. Ma che continua a essere maltrattato come un sovversivo. Poco più di un mese fa, invitato alle celebrazioni del ventennale della moschea di Segrate, ho potuto rivendicarvi il mio legame con Israele nella piena consapevolezza degli organizzatori. Gli spazi per far crescere nell’islam di casa nostra una visione alternativa al fondamentalismo e all’antisemitismo ci sarebbero, se superassimo la non politica delle porte sbattute in faccia.
L’andare oltre le appartenenze irreggimentate è l’unico metodo per contrastare i parassiti dell’esasperazione e i propalatori dell’odio etnico e religioso. Ma per riuscirci non possiamo far finta di non vedere.
Guai a minimizzare il veleno della piazza araba, portando magari a giustificazione l’enormità dell’ingiustizia subita dalla popolazione di Gaza. La solidarietà con chi soffre, la condanna di una guerra sbagliata, il sacrosanto diritto alla protesta e al dissenso, non possono farci tollerare l’imbarbarimento del conflitto che si estende alla nostra sponda europea.
Ci vuole coraggio, oggi, per un musulmano italiano, a denunciare la vergogna antisemita e l’oscurantismo fondamentalista di Hamas. Col rischio di passare per traditore di un popolo che soffre. Ma il futuro potrà nutrirsi di speranza solo grazie a simili figure, capaci di distaccarsi da retrograde appartenenze pseudo-religiose. Mi auguro che la democrazia italiana sappia valorizzare gli “irregolari” degli schieramenti contrapposti, se non vuole uscire da questa guerra ancor più lacerata.
Chi oggi brucia la bandiera sionista di certo ignora che quel simbolo, il cosiddetto “scudo di Davide”, è in realtà “un germoglio straniero nella vigna d’Israele”. Non si tratta, infatti, di un simbolo ebraico ma di una contaminazione postuma dovuta all’incontro tra le diverse civiltà. Nel commentare tale stranezza simbolica, Gershom Scholem cita un versetto della Scrittura: “Si mescolarono alle nazioni e appresero le loro opere”. L’esatto contrario di quel che vogliono infliggerci i fanatici profanatori della fede.

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