Questa mia intervista è uscita su “Repubblica”.
MILANO- L’architetto Abdel Hamid Shaari, 61 anni, nato in Libia ma ormai da tempo cittadino italiano, viene spesso additato come capofila dell’ala più radicale dei musulmani milanesi, in quanto fondatore nel 1989 dell’Istituto culturale islamico di viale Jenner, di cui è tuttora il direttore. Di formazione laica, ha compiuto in seguito, qui fra noi, la sua scelta religiosa; al seguito di un maestro, Saad Abozie, che lui definisce “aderente con spirito critico” ai Fratelli Musulmani, ma che nel 1995 fu tra i 73 arrestati per terrorismo dell’Operazione Sfinge, il cui epicentro fu proprio il controverso garage-moschea di viale Jenner.
Shaari, come giudica la preghiera islamica sul sagrato del Duomo di sabato scorso?
“Non ero a Milano, quella sera, ma sento il dovere di definirla inopportuna. Bisognava prevedere le reazioni che ha suscitato. Per questo ci recheremo a chiedere scusa al cardinale Tettamanzi, personalità che noi musulmani consideriamo altissima e rappresentativa della coscienza del popolo milanese”.
Tale preghiera, però, non è stata improvvisata, bensì sincronizzata in varie città italiane ed europee al termine di cortei dominati da slogan integralisti.
“Temo che il nostro imam Abu Imad sia caduto in una trappola accettando, in buona fede, la richiesta giunta lì per lì di guidare quella preghiera serale pubblica da lui non prevista. Il grido che l’ha preceduta, Allah Hu Akbar, Dio è grande, non va peraltro considerato uno slogan. Si tratta del richiamo liturgico del muezzin alla preghiera. Ne traggo conferma degli esiti dolorosi cui giungono sempre i tentativi di sfruttare politicamente la religione. Ora dobbiamo calmare gli animi, da una parte e dall’altra”.
Non si sente corresponsabile della deriva integralista emersa nelle proteste contro Israele?
“La mia è una posizione difficile. Fino all’Operazione Sfinge del ’95 contro il terrorismo, le autorità hanno avuto ragione di guardare con sospetto viale Jenner, perché eravamo una realtà molto chiusa. Solo allora s’è aperto un varco per dialogare con le istituzioni. E’ faticoso, non mancano fra noi le divisioni interne e gli scontri verbali, ma io opero affinché gli immigrati lascino la mentalità del villaggio e vivano una nuova cittadinanza, nel rispetto della Costituzione e delle leggi”.
Ma le bandiere bruciate? I giuramenti di guerra santa contro Israele?
“Bruciare le bandiere è un gesto odioso. Israele ha sessant’anni di vita: il proposito di annientarlo non sta né in cielo né in terra. Certo, ho subito critiche due anni fa quando aderii a un presidio contro Ahmadinejad promosso dalla Comunità ebraica milanese. Ma io non smetto di partecipare ogni anno alla commemorazione della Shoah che si tiene al binario 21 della Stazione Centrale, da dove partirono i vagoni dei deportati. Lo sa bene il rabbino capo Arbib, originario della Libia come me. Spero mi inviti prima o poi a mangiare il couscous di sua madre”.
Shaari, dunque lei oggi è disponibile a una battaglia culturale contro l’abuso politico integralista della religione musulmana?
“Era passata solo un’ora dagli attentati dell’11 settembre 2001 quando definii Binladen come terrorista. La nostra è una sfida drammatica, in cui anche lo Stato dovrebbe fare qualcosa. Collaboriamo con le forze dell’ordine per tagliare la strada a chi vuole mimetizzarsi nelle moschee per altri scopi. Ma le istituzioni politiche, anziché denigrarci e rendere così difficile, fino all’umiliazione, la pratica religiosa musulmana, dovrebbero cercare interlocutori rappresentativi fra noi. Cosa deve pensare un giovane islamico sbattuto di qua e di là per pregare, come se fosse un delitto? Lo Stato dovrebbe pensare ai suoi nuovi cittadini musulmani, non lasciare che ci organizziamo anche in Italia alla maniera del Terzo mondo, subendo l’imposizione di capi improbabili”.
Non le ha giovato, il 14 novembre scorso, essere respinto come indesiderato all’aeroporto del Cairo. Si porta dietro una cattiva fama…
“Le cose che dico a lei, io le ripeto tali e quali ai miei confratelli. Sono partito per l’Egitto col mio passaporto italiano e con regolare visto emesso dal consolato, per una visita a mia madre malata. Temo che laggiù abbiano voluto fare un favore politico a qualche interlocutore italiano. Ma deformare la mia identità non giova alla causa del dialogo. Io, Shaari, resto convinto che il vero islam debba tenere separata la politica dalla religione e, dopo quarant’anni di vita in Italia, ho un solo presidente della Repubblica: Giorgio Napolitano”.
Cosa dirà all’arcivescovo Tettamanzi, quando lo incontrerà?
“Che gli siamo grati per la sua opera di solidarietà concreta e per i suoi inviti al rispetto reciproco. Sono dispiaciuto di quel che è avvenuto sabato scorso ma continuerò a lavorare per la reciproca comprensione perché questa è la mia difficile scelta di vita: avvicinare le persone che pensano ancora con la testa del villaggio, convincerle a mandare i loro figli nelle scuole pubbliche e a rispettare la libertà delle donne”.