“Il mio nome è Bielski, Tuvia Bielski”

lunedì, 19 gennaio 2009

Questo articolo è uscito su “Repubblica”.
A furia di scandagliare da decenni il mistero obbrobrioso della Shoah, siamo giunti infine com’era giusto alla celebrazione dell’ebreo combattente, nel quale riconoscersi e inorgoglirsi perché non accettò di essere rinchiuso e trasportato come pecora al macello.
E siccome c’è Hollywood di mezzo, lo spettacolo è assicurato niente meno che da un agente 007 che riveste i panni del comandante partigiano ebreo, assecondando l’imprinting del cinefilo che riconosce in lui l’uomo d’azione capace dell’impossibile.
Per fortuna Daniel Craig riesce a cavarsela con talento, in questa parziale metamorfosi. Evita di infliggerci la macchietta di un Rambo circonciso; al contrario, Craig s’immedesima con bravura nella fragilità di un eroe per disperazione, inconsapevole come lo fu Tuvia Bielski, uno tra i tanti ribelli alla belva nazista di cui non sapremo mai il nome. Qul figlio di mugnaio bielorusso che rifiutando l’obbligo di residenza nel ghetto si ritrovò fondatore non tanto di una brigata partigiana, ma piuttosto di una vera e propria comunità selvatica, cioè la comunità fuggiasca che non escludeva gli inadatti all’azione militare, ma li coinvolgeva in un progetto di sopravvivenza dignitosa nella foresta.
Quell’immensa foresta di betulle e conifere, ultimo lembo d’Europa convertito al cristianesimo perché ai suoi abitanti riusciva più facile adorare una simile natura, risulta ahimè familiare a chi vi è tornato in cerca dell’anima ebraica sterminata. Una lunga striscia di terra umida e morbida, concimata da un numero imprecisato di fosse comuni solo qui e là onorate da una lapide, scende dal Baltico fino ai monti Carpazi e al Mar Nero. Quando nel film “Defiance” la brigata Bielski viene raggiunta da un gruppo di fuggiaschi del ghetto di Vilna (uso la parola yiddish, è la Vilnius lituana) ho controllato sulla carta geografica e mi sono reso conto: la foresta di Nalibocka teatro di quell’eroica resistenza si trova in Bielorussia appena oltre il confine che guardavo da Aishishuk (Eisiskés in lituano), il villaggio da cui partirono i miei bisnonni materni per la Palestina. Durante la visita un paesano si compiacque di informarmi: “Qui conserviamo non uno, ma due cimiteri ebraici”. Ma nei prati circostanti mi resi conto che si trattava d’altro. Un primo cippo con su scritto: “Qui tra il 24 e il 25 settembre 1941 i nazisti insieme ai loro collaboratori locali assassinarono barbaramente 1500 uomini ebrei di Eisiskés”. Un chilometro più in là, il secondo cippo ricordava 2500 donne e bambini fucilati a completare l’opera.
In tutte le letture e nei vagabondaggi del rimpianto, puntualmente l’estate 1941 dell’offensiva tedesca viene ricordata per gli eccidi di massa in loco, precedenti l’organizzazione industriale dei campi di sterminio. E nel resoconto di quelle aktion torna sempre un cenno a chi sfuggiva cercando rifugio nella foresta. Molti si nascondevano. Altri si univano agli sbandati dell’Armata Rossa. Ma quasi ovunque nacquero bande partigiane ebraiche come la brigata Bielski, rimaste quasi sempre sconosciute.
“Defiance” celebra i guerrieri che portavano in tasca la Mezuzà, cioè l’insegna biblica strappata agli stipiti delle loro case abbandonate, ma anche i Malbushim, cioè i borghesi inermi che ne condivisero gli stenti.
Tuvia-Craig, lo 007 partigiano, è affiancato dai fratelli Zus e Asael che si cimentano nelle imprese più temerarie, magari patiscono l’umanità ingombrante che devono trascinarsi dietro, ma infine ne riconoscono il valore: restare dei giusti, assetati di vendetta ma senza ridursi alla ferocia animale perché il rabbino, l’intellettuale, soprattutto le donne al seguito li obbligano a preservare la dignità. Qui la sceneggiatura hollywoodiana alterna i colpi di scena tipici di un film d’azione ai riferimenti tradizionali. Tuvia Beiski diventa un Mosè consapevole del fatto che Dio non separerà le acque della palude-Mar Rosso se l’uomo non provvederà con coraggio, e se il forte non sorreggerà il debole. Al rabbino tocca sfiorare l’incredulità e invocare il Signore: “Eleggiti un altro popolo, riprenditi il dono della nostra santità, amen”. Prima che il miracolo della resistenza faccia sopravvivere 1200 ebrei tra la neve il fango e i lupi per tre interminabili anni, mentre intorno si consumava la cancellazione quasi totale del loro popolo. Un miracolo tale da risultare per decenni non raccontabile. I suoi protagonisti non chiesero mai un riconoscimento pubblico e gli stessi fratelli Tuvia e Zus Beiski hanno poi condotto un’esistenza modesta tra Israele e gli Stati Uniti.
La faticosa elaborazione del ricordo della Shoah ha impiegato tutti questi anni per generare il film sull’ebreo combattente che pure è stato una realtà storica molto più diffusa di quanto si pensi. Prima che il regista Edward Zwick potesse osare un’opera così appassionante e popolare, bisognava che si realizzassero molti passaggi culturali. Israele doveva accettare che l’ebreo diasporico non era necessariamente un debole cui dare rifugio nella sua nuova terra. Ha vinto un indicibile disagio (disprezzo?) per i sopravvissuti che sbarcavano a Haifa senza certo essere in grado di combattere. Li ha riscattati solo in parte attraverso la celebrazione degli eroi della rivolta del ghetto di Varsavia, coraggiosi ma tragicamente sconfitti. Poi c’è voluto Spielberg, con “Schindler’s List” per recuperare l’idea del salvataggio come epopea, un successo straordinario che però ha suscitato le critiche di quanti ricordavano come i sommersi siano infinitamente più dei salvati.
Legittimata così l’epopea del salvataggio possibile, è venuto il momento di onorare la brigata Bielski con il linguaggio pop e con le tecniche della suspense, effetti speciali e montaggio d’azione mozzafiato.
Chi lo avrebbe mai detto: “Il mio nome è Bielski, Tuvia Bielski”.

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