Quel vescovo non è un alieno

giovedì, 29 gennaio 2009

Questo articolo è uscito su “Repubblica”.
“Nel dire nuova, Dio ha reso antiquata la prima alleanza. Ma ciò che diventa antiquato e che invecchia è prossimo alla scomparsa” (Lettera agli ebrei 8, 13).
La profezia contenuta in questo testo apostolico tuttora inserito a pieno titolo fra le lettere di Paolo (benché l’attribuzione sia controversa) ha subito la smentita di diciannove secoli di storia. Sopravvissuti a innumerevoli persecuzioni e tentativi di sterminio, nel Novecento gli ebrei hanno rifondato uno Stato nella loro terra d’origine e sono tornati in milioni a parlare una lingua che pareva morta, a lungo rinchiusa nelle sole funzioni liturgiche.
Un enigma, un miracolo, un accidente fastidioso? Il mondo fatica a rispondere, e con esso la Chiesa che si era concepita come Nuova Israele.
“Se infatti la prima alleanza fosse stata irreprensibile, non se ne sarebbe cercata una seconda” (8, 7), minacciava ancora gli ebrei quella Lettera contenuta nel Nuovo Testamento. Riecheggiando il celebre passo paolino della Lettera ai Romani in cui “l’indurimento” della parte d’Israele restia a inchinarsi di fronte al Messia, comporterebbe la sua conversione come passaggio necessario alla salvezza universale.
La sospensione del dialogo ebraico-cristiano decisa ieri dal rabbinato d’Israele in seguito alla mancata sanzione del vescovo Richard Williamson, scaturisce certo da un comportamento maldestro del Vaticano, ma evidenzia la difficoltà di Benedetto XVI nel trovare risposta al mistero della persistenza ebraica. Egli fa i conti con un vuoto di dottrina o, se si vuole, un’inadempienza teologica dentro cui i tradizionalisti lefebvriani hanno buon gioco a inserirsi, esprimendo un umore diffuso ben oltre il loro minuscolo drappello. Basti pensare alla potente voce antisemita di Radio Maria in Polonia.
In coerenza con insigni dottori della Chiesa, come Ambrogio e Agostino, riconoscendosi in secoli di predicazione del disprezzo nei confronti dell’imperfezione e della colpevolezza ebraica legittimata da quella “teologia sostitutiva” (la Nuova Israele che soppianta la vecchia), costoro approfittano della mancata trasposizione teologica dei deliberati conciliari.
Negli ultimi quarant’anni i pontefici hanno revocato l’accusa di deicidio, hanno compiuto importanti gesti d’amicizia verso gli ebrei, hanno perfino riconosciuto (solo nei discorsi, mai in un documento teologico) la validità dell’alleanza contratta da Abramo e ribadita sul Sinai. Ma qui, sull’orlo dell’incognito, si sono fermati.
E’ stato il cardinale Ratzinger nell’agosto 2000, con la “Dominus Jesus”, a delimitare la portata della richiesta di perdono agli ebrei voluta da Giovanni Paolo II; precisando che non vi è salvezza possibile senza il riconoscimento del Cristo. La reintrodotta preghiera latina del venerdì santo per “l’illuminazione” degli ebrei, cioè per la loro conversione, è stato il passo successivo che ha indotto i rabbini italiani a sospendere il dialogo. Nel frattempo il Vaticano ha sposato una vulgata storica che separa nettamente l’antigiudaismo cattolico dall’antisemitismo nazifascista, con ciò escludendo –a dispetto di ogni evidenza- che vi sia stata anche una responsabilità cristiana nel concimare il terreno su cui hanno agito gli sterminatori. Basti pensare, solo un mese fa, alla reazione stizzita dell’”Osservatore Romano” nei confronti del presidente della Camera riguardo alle leggi razziali.
Fa male riconoscere che il vescovo Williamson non è un marziano, ma il prodotto degenere di una corrente di pensiero più vasta. Chi, sulla base di una dottrina legittimata dal Nuovo Testamento, vede l’ebreo come un essere imperfetto che ha misconosciuto la Verità fiorita sulla sua radice, necessariamente ha vissuto la nascita dello Stato d’Israele come evento sospetto, se non malefico. Patisce come incomprensibile la riduzione a piccola minoranza dei cristiani nella terra di Gesù. Guarda con ostilità alla trasformazione delle vittime di sempre in combattenti (e ciò spiega anche i riferimenti offensivi a Gaza come “lager”). Infine, non può che rifiutare l’attribuzione di un significato provvidenziale al ritorno degli ebrei nella Terra Promessa.
Questo è un punto delicatissimo, sul quale rischiano di insorgere equivoci pericolosi. Perché non si tratta certo, per la Chiesa, di mescolare le scelte politiche e diplomatiche mediorientali alla riflessione teologica, in un esplosivo cortocircuito: come la teoria degli evangelici apocalittici che indicano nel ritorno degli ebrei in Terrasanta un passaggio preliminare dell’Armageddon, la guerra distruttiva da cui scaturirà la loro conversione e dunque la salvezza. Per carità, c’è già abbastanza fanatismo integralista in giro. Ma pure è indubbio che la Chiesa stia faticando a elaborare una visione pacificata e amorevole d’Israele anche perché non ha risolto il problema teologico della persistenza ebraica nel mondo, senza conversione.
La netta condanna espressa ieri da Benedetto XVI del negazionismo e del riduzionismo infiltrati nella corrente tradizionalista della Chiesa, giunge benefica a limitare i danni. Ma l’irrisolta questione teologica del suo rapporto con gli ebrei rende evidente come sia dannosa la limitazione proposta dal papa nella sua insolita lettera a Marcello Pera: il dialogo interreligioso derubricato a “dialogo interculturale”; per giunta impraticabile “senza mettere tra parentesi la propria fede”.
Uno stop che potrà anche piacere a certi rabbini, preoccupati di evitare a loro volta ogni contaminazione intorno alla figura del Gesù ebreo. Ma così si rinuncia a quel dialogo che per divenire efficace comporta la disponibilità a rimettersi in discussione grazie, e non contro la propria fede.
Assai preferibile è la disposizione d’animo di Amos Oz che scherzando, ma non troppo, confida: “Gesù non è mai andato in Chiesa, non si è mai fatto il segno della croce. Vedo in lui uno dei nostri fratelli”. Fu proprio lo zio di Oz, lo studioso gerosolimitano Joseph Klausner, a pubblicare nel 1922 il primo libro su Gesù scritto in ebraico senza intenti di proselitismo. Guardando oltre il male perpetrato nei secoli dai cristiani a danno dei suoi confratelli, Klausner li sollecitava a riconoscere la funzione benefica esercitata da Gesù come diffusore universale delle idee del giudaismo.
Quando il dialogo ebraico-cristiano riprenderà, speriamo presto, ne avvertiremo gli effetti dirompenti che scaturiscono dal significato autentico della Bibbia. Il Libro che ci sollecita a cambiare, se vogliamo restare fedeli a noi stessi.

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