Resteremo il paese del “si fa ma non si dice”?

mercoledì, 11 febbraio 2009

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Come ben sa per esperienza personale ciascuno dei lettori che ha assistito malati terminali, ogni giorno negli ospedali italiani centinaia di persone rischiano di restare impigliate nella tecnica che non è riuscita a salvarle. Com’era successo nel 1992 a Eluana Englaro. Il suo ritrovarsi prigioniera di un fine vita inconcluso – fino al penoso epilogo del suo calvario, nella clinica di Udine dove era ricoverata da quattro giorni – era stato un effetto negativo del progresso scientifico. Quell’effetto negativo che ogni giorno i medici scongiurano pietosamente, interrompendo terapie di mero prolungamento senza progressi. Spesso chiedono prima il consenso dei familiari, altre volte decidono per conto proprio. Le ricerche evidenziano che circa il 20% dei decessi avviene così, per decisione sanitaria di non insistere.
Dunque l’unico torto di Beppino Englaro era l’avere chiesto che tale decisione venisse assunta alla luce del sole, in base a una corretta interpretazione della libertà di cura, e non, come al solito, di nascosto (si fa ma non si dice).
Le fotografie di com’era sua figlia prima dell’incidente, più di 17 anni fa, da lui divulgate per sostenere questa istanza, gli sono state ritorte ossessivamente contro da una volgare campagna mediatica «per la vita»: in Tv continuavano tutti a chiamarla «ragazza» e andavano forte le allusioni alla sua vitalità. Il capo del governo, deprecata la crudeltà dei medici, aveva insinuato persino che la famiglia Englaro sollecitasse la condanna a morte della figlia per una questione, testuale, di «scomodità». Dopo essersi lavato le mani dell’appello a lui rivolto nel 2004 per iscritto; del decreto della Corte d’Appello di Milano emesso nel luglio 2008; della sentenza con cui la Corte di Cassazione ne ha ribadito la validità tre mesi or sono. Immagino sperasse che a impedire l’attuazione della volontà Englaro bastassero il no della Regione Lombardia e la disseminazione di ostacoli burocratici. Invece gli è toccato sfidare una decisione presa dalla magistratura (giudici crudeli) e come tale difesa dal presidente della Repubblica (approfittando di una Costituzione «sovietica»).
Silvio Berlusconi, mentre Eluana moriva, si apprestava a riscuotere il voto di un Parlamento finora disinteressato a legiferare in materia di fine vita. Se la sostanza non muterà, nessun cittadino italiano potrà rinunciare liberamente a idratazione e alimentazione artificiali, neppure se lo volesse. L’intrusione dello Stato, portavoce di un pensiero neodogmatico della Chiesa cattolica, toccherà vertici formali mai raggiunti. Salvo, naturalmente, l’invito a ignorare quella norma nella prassi quotidiana, alla chetichella. Si fa ma non si dice.
Non ho mai creduto a un rapido declino del berlusconismo, e ancor oggi mi fa impressione vedere come la destra italiana trovi i nuovi capofila del suo pensiero reazionario negli ex socialisti convertiti come Tremonti, Sacconi, Brunetta. Eppure stavolta credo che Berlusconi, per troppa confidenza nella sua forza e per ansia di ridimensionare il potere d’interdizione del Quirinale, abbia commesso un errore fatale. Si compiaccia pure del consenso tributatogli dai cattivi (con gli immigrati) all’improvviso diventati buoni (con Eluana). Quelli che recavano inutili, macabre pagnotte e bottiglie d’acqua al suo capezzale, ma rinchiuderebbero volentieri nei lager del deserto libico gli affamati che sbarcano a Lampedusa.
Berlusconi scoprirà presto che la società italiana è andata troppo avanti rispetto allo schema clericale in cui per troppa ansia di comando, maldestramente, aveva cercato di rinchiuderla. Sbaglierò, ma la sua alleanza con Benedetto XVI sul caso Eluana potrebbe segnare l’inizio di una profonda crisi di consenso.

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