Servirà a qualcosa l’Usa-socialismo?

mercoledì, 4 marzo 2009

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Come idrovore le banche e le assicurazioni statunitensi continuano a risucchiare denaro pubblico, suscitando l’ira dei contribuenti e diffondendo la sfiducia nel resto del mondo. Gli Usa possono ringraziare il cielo di essersi affidati a un presidente dotato di molto sangue freddo, ma ormai è chiaro che Obama deve andare contronatura rispetto all’indole americana nel tentativo di evitare il collasso. La settimana scorsa di fatto ha nazionalizzato Citibank, cioè la banca più grande del paese. Ancora non sappiamo se i fondi già stanziati basteranno a salvare l’Aig, altro colosso presente in ogni momento della vita quotidiana Usa, per intenderci come da noi le Generali; e pure la General Motors da un momento all’altro potrebbe fallire.
Una volta si diceva “troppo grande per fallire”, ora rischia di essere vero il contrario. Nonostante che gli Stati, a partire da Washington, abbiano ormai destinato al sostegno delle imprese in crisi somme astronomiche, di molto superiori a quelle incassate negli anni delle privatizzazioni. Solo nelle banche, di qui e di là dell’Atlantico, si calcola che i governi abbiano già iniettato 370 miliardi di dollari senza averne garantita con ciò la disintossicazione.
Non ci fosse la Cina, Barack Obama potrebbe essere considerato d’un colpo il presidente del più grande paese socialista del mondo. E come se non bastasse l’economista che prima di ogni altro ha previsto la gravità epocale della recessione in corso, Nouriel Roubini, gli raccomanda di nazionalizzare ancora senza risparmio, perché le mezze misure non servono a nulla.
Dobbiamo tutti riconoscere onestamente che la Grande Crisi esplosa nell’autunno 2008 sconvolge le nostre categorie di pensiero. Difficile immaginare che se ne possa uscire con una semplice ripresa, cioè senza che mutino radicalmente non solo i protagonisti del gotha finanziario mondiale, ma anche i dogmi del cosiddetto libero mercato. Quando vedo, anche in Italia, i soliti noti che fino a ieri teorizzavano il neoliberismo e si arricchivano con stock options e exploit borsistici, tessere le lodi dello Stato protettore, mi viene da pensare che per decenza il minimo sarebbe vederli sostituiti da altri manager. Da noi, al contrario, il rischio è che si ritorni al passato remoto: non a caso i banchieri più adatti a fronteggiare le intemperie paiono essere quelli provenienti dalla militanza politica democristiana (Guzzetti, Palenzona, Mazzotta; senza contare l’andreottiano Geronzi e l’andreattiano Bazoli).
Obama viceversa ha la credibilità dell’uomo nuovo. Meno goffo, dunque, nella polemica rivolta contro l’establishment finanziario di Wall Street (che pure gli ha fornito metà amministrazione). Lui non è l’uomo più ricco del suo paese, dunque può senza imbarazzo limitare drasticamente i compensi dei manager le cui aziende usufruiscono di aiuti di Stato. Nonché immaginare un futuro in cui la forbice delle retribuzioni, e quindi delle disuguaglianze, la smetta di spalancarsi fino a mettere in crisi il sistema. Le tasse annunciate da Obama sui redditi più alti non basteranno probabilmente a finanziare l’assistenza sanitaria gratuita per gli anziani indigenti. Ma sono un segnale d’impegno pubblico per la redistribuzione delle risorse che è forse l’unico messaggio significativo cui una politica democratica possa dedicarsi nel mezzo della bufera.
La verità, infatti, è che oggi i governi possono fare ben poco impiegando denaro pubblico. Ma si differenziano per il disegno sociale cui aspirano. Un governo di sinistra “alla Obama” cerca l’unione di tutta la cittadinanza nella tutela dei soggetti più deboli. Un governo di destra cerca invece di proteggere il ceto medio dividendolo dagli strati sociali inferiori e distanziandolo dalla loro sorte.

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