Siamo ritornate come le nostre nonne?

sabato, 7 marzo 2009

In occasione dell’8 marzo 2009 il bastardo cede volentieri la parola alla sua amica Elisabetta Ambrosi, giornalista culturale, con questo intervento pubblicato in un’altra versione su “Europa”.

Oggi è l’8 marzo: l’ennesima occasione per parlare di corpi femminili, delle violenze che subiscono, delle conquiste faticosamente raggiunte e magari rimesse in discussione? Per molti sarà così, tanto che forse persino il caso di Eluana verrà tirato in ballo per parlare di diritti e libertà al femminile.
Le parole, e le grida, spese sul caso di una ragazza quasi morta fanno emergere, per contrasto, il grande silenzio riservato alle tante ragazze e donne vive. Alla qualità della loro vita pubblica e lavorativa, e alla loro libertà di scelta, all’interno di quella vita. In fondo, la celebrazione dell’8 marzo riguarda soprattutto il lavoro, perchè ricorda la vicenda di 129 operaie morte per aver scioperato contro le condizioni terribili cui erano costrette.
Oggi quelle condizioni sono cambiate, ma sono lontane da quelle di un paese che si definisce sviluppato; e soprattutto sono in costante peggioramento. Laureate più dei colleghi uomini, anche se spesso in materie meno vincenti, le giovani donne arrivano in un mondo del lavoro che le respinge, o al massimo concede loro claustrofobici spazi, con compensi miseri e scarse tutele. Che non si tramutano nella felice stabilità, come previsto da molti cattivi profeti, ma più spesso – la crisi economica l’ha mostrato senza troppi giri di parole – nella perdita del posto.
Eppure le donne che hanno un cattivo lavoro sono comunque fortunate! Ben quattro su dieci, (tre al sud), non lavorano affatto. Sono numeri che spaventano: chi sono, e cosa fanno, durante le loro lunghe giornate? Non si tratta più solo di persone come le nostre nonne, con tanto da fare in casa e famiglie numerose. Spesso sono giovani e non hanno figli. Non ne possono fare perché non hanno risorse; oppure sono a casa proprio perché ci hanno provato, ma poi, uscite dall’ospedale col fagotto in braccio, sono scivolate nell’ombra. Per un contratto non rinnovato o l’impossibilità di lavorare e accudire insieme.
«Risorse preziose», però mai utilizzate
Non è difficile oggigiorno imbattersi in dichiarazioni e pubblicazioni che definiscono le donne «risorse preziose», «veicoli di modernizzazione«, «strumenti indispensabili per far crescere il paese». È una retorica di cui ormai è meglio diffidare perché, se davvero così fosse, le donne verrebbero allora tempestivamente utilizzate, a partire da chi le definisce tali. Invece, avviene proprio il contrario.
I ruoli di prestigio istituzionale sono ricoperti oggi quasi solo da uomini. Le tribune dei nostri giornali sono popolate da maschi per lo più anziani, tanto che in quello che viene considerato il più prestigioso quotidiano del paese, il «Corriere della sera», l’editoriale più importante non è in nessun caso firmato da una donna, senza che nessuno se ne stupisca. Nelle aziende non va meglio: le donne guadagnano di meno, mentre nei cda e nei ruoli dirigenziali le percentuali di presenza femminile sono da paese non civile (e non da terzo mondo, definizione offensiva e sbagliata, anche perchè lì le percentuali sono ben maggiori).
Come mai le donne si presentano in pari numero e pari titoli alla competizione per il lavoro, ma non arrivano al traguardo? Il processo durante il quale si perdono per strada si svolge silenziosamente, senza che nessuno se ne accorga, se non le dirette interessate (e talvolta neanche loro). È un processo fatto di selezione più severa fin dal primo colloquio, di mobbing, di sostituzioni di maternità al termine delle quali ci si trova relegate in un ruolo marginale.
È un processo guidato da una mano invisibile, quella di una cultura, o meglio non-cultura, che non le considera davvero pari, che le ritiene “fragili”, “nervose”; che assegna loro soprattutto il compito di coprire tutte quelle funzioni che circondano il potere (e che permettono a chi lo esercita di farlo al meglio), oppure di ingentilire l’ufficio e le cene di lavoro. E non è un caso che le giovani donne di oggi, magari con concorso di colpa, ritengono assai più utile la scorciatoia della seduzione alla solidità di una formazione vera. Che, tanto, non viene premiata, se non con contratti precari o con la disoccupazione.
In compagnia di giovani e immigrati
Se le donne sono escluse, si trovano però in buona compagnia: quella dei poveri, dei giovani, degli immigrati che vendono le mimose ai semafori. Fasce di persone che, nella nostra sfera politica-economica wasp, hanno scarsa o nessuna voce in capitolo. Difendere le donne oggi significa anche prendere le parti di queste maggioranze silenziose; aumentarne la rappresentanza aiuta anche di chi è escluso per altre ragioni.
Purtroppo la soluzione è lungi da venire, perché chi dovrebbe curare il problema è anche quello meno interessato a farlo. Se lo fosse infatti, accetterebbe le quote rosa come misura di emergenza, anche se poco liberale. O andrebbe a quegli incontri sui problemi femminili, tristemente popolati solo da donne, come se ai convegni su una patologia fossero presenti solo i malati.
Invece, aspettando che questa fase di infinita transizione finisca e che le loro figlie e nipoti ereditino un paese più equo, le donne italiane, spesso iper-formate e cosmopolite, stanno alla finestra, proprio come le loro nonne. Guardando ad esempio quel paese, gli Stati Uniti, il cui il neopresidente, maschio, ha deciso per prima cosa di equiparare gli stipendi di uomini e donne: scelta che dai noi verrebbe subito bollata come misura liberticida.
All’interno dei loro appartamenti, invece, c’è molto silenzio. Gli uomini sono al lavoro. Le culle sono vuote. E qualche volta, si affaccia con amarezza il (non) senso di una vita sprecata.
Elisabetta Ambrosi

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