Fausto e Iaio, 31 anni dopo

mercoledì, 18 marzo 2009

Questa sera alle ore 21, insieme ad altri amici di gioventù, sarò a Milano in via Mancinelli nel luogo in cui vennero uccisi, il 18 marzo 1978, Lorenzo Iannucci e Fausto Tinelli. Vi propongo il ricordo che ho scritto per un libro commemorativo.
Avevo 23 anni e quindi è improbabile che in quella notte di viaggio sull’Autosole verso Milano mi siano venuti i primi capelli bianchi. Ma di certo ricordo quelle giornate terribili del marzo 1978 come passaggio definitivo all’età adulta.
Vivevo a Roma da poco più di un anno, lavoravo al quotidiano dalla testata rossa sopravvissuto, perfino rinvigorito, dallo scioglimento di Lotta continua. Fronteggiavamo la deriva violenta e il reclutamento nella lotta armata di troppi compagni che ci erano stati vicini ma che cercavano nella militarizzazione una risposta alla crisi della militanza, all’inesistenza di sbocchi politici positivi delle lotte operaie e del movimento del ’77. Insomma, ci sentivamo tra due fuochi. Da una parte la disumanizzazione della politica ridotta a guerra in cui il nemico smetteva di essere persona, ridotto a simbolo da abbattere. Dall’altra un governo disposto a ricorrere a strumenti emergenziali, ben oltre la legalità, pur di stroncare l’azione inconsulta di una sinistra rivoluzionaria vissuta come ostile innanzitutto dal Pci e dai sindacati.
La ricordo come una sequenza di eventi micidiale. L’azione di guerriglia costata la vita a cinque agenti di polizia in via Fani, il sequestro di Aldo Moro, massimo esponente della Democrazia cristiana. Le Brigate Rosse che esibivano una potenza bellica in realtà superiore alle loro effettive forze, ma tale da suscitare purtroppo ammirazione fra troppi militanti educati a concepire le pallottole come strumento ineludibile del passaggio rivoluzionario.
Altro che rivoluzione. Dalla Sicilia arrivava la notizia del nostro Peppino Impastato ucciso dalla mafia. Un lutto per pochi intimi, perché ovviamente l’attenzione era puntata solo sul sequestro Moro. E subito dopo l’altra notizia orrenda, quei due ragazzi falciati su un marciapiede a Milano nella zona in cui avevo abitato fin da bambino.
Ricordo il brivido di paura per quel delitto consumato in luoghi a me così familiari. Le prime telefonate con Paolo Hutter e gli altri amici di sempre radunati intorno a Radio Popolare. La preoccupazione che al lutto succedessero reazioni inconsulte, il tranello di una provocazione che trascinasse la spirale repressiva oltre i limiti dell’immaginabile.
Quel passaggio di tensione fra Roma e Milano sembrava fatto apposta, ma alla redazione di Lotta continua si brancolava nel buio come dappertutto. Chiesi io a Enrico Deaglio, il mio direttore, di partire subito. Anche se avrei lasciato sguarnita la “cucina” del giornale di cui all’epoca mi occupavo con Paolo Brogi. Sentivo il richiamo dei luoghi domestici, via Casoretto, via Leoncavallo, la zona universitaria. Li avevo lasciati già angosciato dalla militarizzazione insulsa dei servizi d’ordine che impediva ai piccoli dirigenti come me di godersi la controcultura dei centri sociali e la ricerca di libertà che in quei luoghi s’improvvisava. Temevo il peggio. E forse volevo anche sfuggire certe riunioni romane accese fin quasi allo scontro fisico tra noi che stampavamo un No alla violenza in prima pagina e gli altri che ci accusavano di tradimento e viltà.
Stipati in un’utilitaria sgangherata, siamo arrivati a Milano alle prime ore dell’alba e siamo stati sommersi da un dolore che mi sento ancora dentro. Mi vergogno a dirlo ma non riesco a ricordare chi viaggiasse con me, certamente dei cari amici che mi scuseranno. Avevo paura di quel che avrei trovato. La perdita di due ragazzi così giovani, la sensazione di un’innocenza violata, di una comunità di fratelli minori che la vita fino allora aveva preservato dagli orrori di un’Italia oscura.
E in effetti quel che trovai fu se possibile ancora peggio. Lacrime per Fausto e Iaio, amici dei miei amici. Sentirsi isolati nella città. Prigionieri. Un lutto difficile da condividere e dunque impossibile da elaborare con saggezza.
Ci sarebbero voluti anni per venirne fuori, e avere ragione delle diffamazioni e degli ingiusti sospetti. Come in quell’altro delitto che ci aveva portato via un altro ragazzo, Alceste Campanile: solo trent’anni dopo il fascista che l’ha ucciso, al riparo della prescrizione, ha confessato sciogliendo il mistero.
Nel caso di Fausto e Iaio per fortuna Milano ha saputo riprendersi e da quelle vite stroncate ha germogliato un culto affettuoso della memoria. Dobbiamo renderne grazie innanzitutto alla sensibilità femminile delle mamme del Leoncavallo. Dico Fausto e Iaio sempre in coppia, come nella poesia antica ricordiamo la tragedia di Eurialo e Niso, e i loro volti restano stampati in noi sempre giovani, sorridenti, bellissimi.

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