Prefetti e banchieri, dalla padella alla brace

mercoledì, 18 marzo 2009

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Il tiro al bersaglio dei politici sui banchieri ha raggiunto una tale intensità che perfino il più filo-governativo tra loro, Corrado Passera, s’è sentito in dovere di protestare. Va bene sentirsi dare degli zombies, la raccomandazione che vadano a casa o in galera, i conti in tasca ai loro compensi (peraltro non dissimili da quelli di manager pubblici o privati che se ne restano acquattati nell’attesa che passi la buriana, magari al riparo di un protettore politico). Ma il modo in cui è stata presentata da Tremonti la decisione di delegare a venti prefetture italiane la “supervisione” sulla corretta erogazione del credito da parte delle banche alle imprese bisognose, sembra confezionata apposta per canalizzare gli istinti vendicativi di artigiani e industriali con l’acqua alla gola. Prendetevela coi banchieri!
Così la Grande Depressione sta trasformandosi anche in un grande regolamento di conti ai vertici del potere economico. Perché i banchieri, sia ben chiaro, hanno davvero collezionato errori e colpe, resi plateali dal fallimento della gestione finanziaria di tutto l’Occidente. Sono divenuti bersagli ideali di qualsiasi moto populista. E il governo che stanzia a garanzia del sistema creditizio una dozzina di miliardi –nella speranza che tale liquidità sventi la paralisi del sistema produttivo- con ciò stesso acquisisce il diritto di ingerire nelle scelte dei banchieri. Pago, pretendo.
Per la verità hanno pagato miliardi di euro in salvataggi industriali assai opinabili, ma sollecitati dai governi, pure le banche oggi cadute in disgrazia. Ad esempio se Passera osa criticare il ricorso di Tremonti ai prefetti, è anche perché gode di una pubblica benevolenza da parte di Berlusconi per come Intesa-Sanpaolo l’ha assecondato nella vicenda Alitalia. Dettagli che interessano solo gli addetti ai lavori. Come la prudenza di Berlusconi nei confronti della Banca d’Italia, che lui tiene al riparo dagli attacchi scagliati nei confronti di Mario Draghi dal suo ministro Tremonti. Il capo del governo non segue il suo ministro dell’Economia in tali disfide spericolate, anche perché sgradisce la sua eccessiva autonomia politica.
Nella sostanza, però, la declinazione italiana di questo fenomeno mondiale per cui in tempi di crisi la politica prende le distanze dai finanzieri con cui era in combutta fino a ieri, è presto detta: il governo di destra si compiace di cuocere a fuoco lento i banchieri, con qualche bruciatura supplementare per quelli che parteciparono alle primarie dell’Ulivo (Alessandro Profumo e Giovanni Bazoli in cima alla lista). Farli fuori e/o sottometterli risulterebbe vantaggioso, un modo chiaro di far capire all’intero sistema che d’ora in poi l’erogazione del credito dovrà seguire criteri politici. Son finiti i tempi del banchiere potente e arrogante che pretende di far da solo.
Non a caso pare ritornata in Italia la stagione del “banchiere politico”. Scafati e navigati ex democristiani che sanno mediare con il ministro e magari proteggono i loro istituti con un’efficacia che i banchieri-manager di stile anglosassone oggi si scordano. Questi ultimi risultano difatti indifendibili per la mole di errori compiuti, i danni arrecati ai risparmiatori e per l’enorme quantità di valore aziendale che hanno distrutto. Ma il timore è che l’Italia passi dalla padella delle banche alla brace della politica impicciona. Tale è la sensazione trasmessa dal braccio di ferro su chi debba sovrintendere alla corretta erogazione del credito, cioè al delicatissimo rapporto fra banche e imprese bisognose di liquidità. La Banca d’Italia o le prefetture? Perfino quello spiritosone di Umberto Bossi ha fatto notare che i nostri prefetti rischiano di capirne ben poco, di economia. Qui è di potere che si sta trattando. Col rischio che i soldi –in barba ai Tremonti bond- non riprendano a circolare.

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