“Bianco”, un libro che vi resterà dentro

martedì, 24 marzo 2009

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Non sono un critico letterario ma credo di saper riconoscere una scrittura potente, capace di entrarmi dentro e, attraverso la narrazione di una storia, esprimere lo spirito dei tempi fino a condizionare il mio stato d’animo.
Eppure avevo preso le mie precauzioni, cioè una buona dose di scetticismo, di fronte al “troppo giovane” riminese Marco Missiroli, a me completamente sconosciuto. Ma come si permette, un ventottenne della provincia italiana, di cimentarsi con una storia americana fuori della sua portata, negri e bianchi di ben altra provincia, quelli reduci dalla schiavitù, dalla segregazione, dai cappucci del Klu Klux Klan, le frustate, il conformismo più ottuso degli States meridionali? Il pivello doveva pur saperlo che stava addentrandosi nell’epopea letteraria, nel cinema d’oltreoceano di fronte a cui possiamo solo toglierci il cappello…
Invece Marco Missiroli ha scritto “Bianco”, un romanzo spudorato per ambizione, e la casa editrice Guanda gliel’ha pubblicato. Quando ho capito che mi catturava, ho supposto che dipendesse solo dalla trama astuta: il vecchio razzista Moses Carpenter, vedovo sentimentale, costretto a rivivere una vita di sbagli il giorno in cui gli capitano dei vicini di casa scandalosi. Ovvero il negro Nimrod Nolan evoluto al punto di sposare una bionda-bianca del Nord, farci un bimbo irreparabilmente nero, e trascinarli in un Sud zeppo di ricordi angosciosi con a rimorchio una madre grassa, fumatrice, moribonda, ma soprattutto ballerina, che quei ricordi angosciosi li conosce a memoria.
Dopo che l’ho finito e l’ho messo via, quel “Bianco” di Marco Missiroli ha cominciato a ronzarmi dentro. Svolazzava il canarino William, personaggio decisivo, l’unico a cui Moses Carpenter parlasse veramente sbriciolandogli la crosta della torta e invitandolo a servirsi sul bordo del piatto. Oppure dovevo fare attenzione a non calpestare l’altro personaggio, Peter, pellerossa snodabile di plastica, molto più di un indiano giocattolo a giudicare da come gli parlava il bambino. Metteteci ancora un grande fiume, l’immanenza di una dolce Judith che aspetta il vecchio in cielo, la musica, il senso del peccato, l’agonia di Miss Betty (la madre grassa che tutto sa) in grado di riscattare come virtù la debolezza del peccatore.
Insomma, ho capito che non mi aveva acchiappato la trama di “Bianco”, bensì la scrittura, i dialoghi, l’immedesimazione in un conflitto primordiale. Questo Missiroli (intervistato da “Vanity Fair…..) ha dentro una molla letteraria che lo rende capace di scrutare la natura animale delle nostre relazioni. Brutale: “I negri quando corrono sono lepri e il manto lucido non è pelo ma sudore. Pensano solo a filare nel vento, poi a nascondersi. Allora per stanarli basta cercare in basso. E poi lo senti il puzzo della loro paura, sa di polvere, mentre l’odore del bianco si avvicina”. Sì, sa scrivere, Missiroli.
Non gli farò il torto di politicizzare la caccia da lui narrata in un’America distante. Ma che l’abbia concepita nell’Italia di oggi è tutt’altro che strano. Da qualche tempo conservo nel desktop del mio pc un cartello indicatore dei gabinetti pubblici sudafricani risalente a una ventina d’anni fa. Con le frecce: bianchi a pisciare da una parte, non bianchi dall’altra. L’inconcepibile solo ieri ci sembrava naturale, e domani potrebbe tornare ovvio.
Se volete un consiglio, leggetevi “Bianco”. Perché la buona letteratura ci scruta dentro. Se poi è opera di uno scrittore con la metà dei miei anni, ho il fondato sospetto che lui lo senta, quell’odore della paura, e riconosca il bianco come “vortice che si mangia tutti i colori”.

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