L’Infedele, stasera alle 21,10 su La7, fa i conti con la cosiddetta “rabbia populista” alla vigilia del G20 di Londra chiamato a riscrivere le regole della finanza mondiale in crisi. Partecipa, in collegamento da New York, la politologa Nadia Urbinati della Columbia University. Ospiti in studio: Roberto Mazzotta, preidente della Banca Popolare di Milano; il sociologo Marco Revelli; Oscar Farinetti, fondatore dei megastore di gastronomia “Eataly”; Susanna Camusso della segreteria confederale Cgil; Luigi Bordoni, presidente di Centromarca; l’economista Marcello De Cecco; Maurizio Pallante del Movimento per la decrescita; Omeya Seddik del Mib francese (Mouvement immigration banlieus); Loriana Pelizzon de lavoce.info, curatrice del libro “Il mondo sull’orlo di una crisi di nervi” (Castelvecchi editore). Saranno inoltre presenti in studio dei lavoratori Fiat di Pomigliano d’Arco e i portavoce dell’Associazione famiglie numerose. Interviste registrate con gli esponenti del Centro sociale Askatasuna di Torino e con l’eurodeputato Roberto Fiore, segretario di Forza Nuova.
Qui di seguito vi propongo un mio articolo uscito su “Repubblica” in cui ragiono sul tema della serata.
I SUPERCOMPENSI AI MANAGER, UNA QUESTIONE POLITICA
Luca Cordero di Montezemolo e Sergio Marchionne si sono dimezzati il compenso Fiat del 2008, riducendolo a 3,4 milioni cadauno. Ancora più sensibile il taglio deliberato per il top management dell’Unicredit, in seguito al mancato raggiungimento degli obiettivi aziendali. Dovevano pensarci prima? O i profitti conseguiti negli anni delle “vacche grasse” giustificavano i loro redditi stratosferici?
Ora che manager e banchieri sono guardati in cagnesco dall’opinione pubblica, è prevedibile un effetto a cascata di autoriduzioni che coinvolgerà centinaia di quadri di seconda fascia. A godere di bonus milionari, infatti, non sono stati solo i dirigenti con responsabilità strategiche. L’elasticità delle retribuzioni variabili ha incentivato al rischio e all’aggressività pure una vasta leva di giovani finanzieri, trasformandoli in spacciatori di asset tossici.
Sarebbe un peccato liquidare come invidia sociale o –come si dice ora- “rabbia populista”, una riflessione sulla forbice delle retribuzioni divaricata ormai fino al rischio di spezzarsi. Anche perché la caccia al ricco, se orchestrata demagogicamente da una politica plutocratica come quella italiana, al cui vertice siede il più ricco di tutti, è il modo peggiore per affrontare l’ingiustizia sociale venuta allo scoperto. Sarà pure vero che i “manager stockoptionisti” hanno messo a segno un “colpo di Stato mondiale” (Giulio Sapelli); o che “il trionfo dell’élite manageriale”, composta ormai più da finanzieri che da ingegneri, ha dilatato immeritatamente il rapporto fra le retribuzioni dell’alta dirigenza e quelle dei dipendenti, portandola da 45:1 nel 1980 fino a 500:1 nel 2000 (Alessandro Casiccia). Ma dietro ai tecnocrati si nascondono azionisti –una volta si diceva padroni- che non compaiono nelle classifiche dei più pagati ma che hanno ingigantito nel frattempo i loro patrimoni.
La recessione mondiale pone una domanda ben più radicale sulla destinazione dei profitti d’impresa. Troppo comodo minimizzare tale crisi come “virus americano” che toccherebbe solo di striscio la nostra società (lo ha sostenuto ieri –guarda caso- Silvio Berlusconi, divenuto per l’occasione antiamericano). Senza speculazione finanziaria non esisterebbe l’industria così come oggi la conosciamo e la crisi è esplosa anche perché nel sistema attuale i profitti d’impresa sono troppo bassi se confrontati ai rischi. Invece di prendersela con la finanza, allora, bisognerebbe riconoscere che è miseramente fallita l’idea che dare libero corso ai profitti di pochi avrebbe beneficiato a cascata l’intera società circostante: a furia di legittimare la disuguaglianza si è infine penalizzato anche il ceto medio, oltre che i poveri.
Fa impressione leggere la denuncia di un magistrato come Francesco Greco, il pm del caso Parmalat: “Credo che l’unica cosa veramente etica sia accettare di tornare a profitti normali. I profitti degli ultimi 20 anni non sono stati normali, sono profitti drogati che possono provenire solo da attività illecite”.
Ma cosa significa tornare a “profitti normali”, dopo un lungo ciclo economico che li ha visti crescere a scapito del lavoro dipendente? Al G20 di Londra i governi cercheranno di fronteggiare la spregiudicatezza finanziaria ponendo limiti d’accesso ai paradisi fiscali e al segreto bancario. Non è detto che vi riescano. Più facile per loro, e di sicuro effetto, sarà fissare tetti retributivi ai manager delle aziende che godono di sostegno pubblico. Ammesso e non concesso che il governo di destra italiano sia disposto a seguire l’esempio statunitense, francese, tedesco, il risultato discutibile è che si assegni a un manager l’ingrato compito di guidare una grande azienda in difficoltà per un compenso inferiore a quello percepito da un avvocato, un notaio, un chirurgo. Si placherà, forse, il malcontento delle vittime della crisi, ma senza fare ancora un passo in direzione di un’efficace redistribuzione del reddito.
Ben oltre la caccia al banchiere, lo sterco nel ristorante di lusso, la ghigliottina per lo speculatore (ma non per il suo complice ministro) è sulla necessità di un’opera di redistribuzione del reddito fra profitti e lavoro che la politica tornerà a dividersi. Restituendo significato alle categorie di destra e sinistra così come le ha attualizzate Norberto Bobbio. Non a caso il filosofo torinese ha sottolineato l’attualità “di sinistra” del valore dell’uguaglianza.
Dopo avere cavalcato vittoriosamente l’offensiva del popolo contro l’élite, ora la destra è destinata a mostrare il suo vero volto al cospetto dell’ingiustizia sociale. Quale politica fiscale, quale regolamentazione degli utili d’impresa, quale antidoto all’arricchimento di pochissimi e all’impoverimento degli altri? Non è un caso se oggi si levano tante voci frettolose a dire che “il peggio è passato”. Sperano di cavarsela uscendo dalla crisi senza correggere le dinamiche della disuguaglianza. I furbi confidano nella fine della nottata, e pazienza se ne scaturirebbe una società ancora più ingiusta. Ma la loro è una pia illusione perché la crisi è davvero epocale. La sinistra oggi ne è travolta insieme alle categorie sociali che ha rappresentato. Ma ha dalla sua i valori per rigenerarsi, promuovendo un moto di equità: politica dei redditi, giusta distribuzione della ricchezza, rientro dei benestanti in parametri di sobrietà.