Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Sarà che sono abituato ormai da quindici anni a viverlo come parte del mio paesaggio esistenziale, ma il Berlusconi che domenica scorsa si faceva acclamare alla Fiera di Roma presidente del Popolo della Libertà –al canto dozzinale di “Meno male che Silvio c’è”- suscitava in me piuttosto tenerezza che dispetto. Rispetto ad altri capopopolo novecenteschi, lui appare innocuo. Mica commissiona melodie drammatiche, cavalcate wagneriane. Gli basta e gli avanza un refrain pubblicitario in linea con la televisione commerciale che ha fondato. Vuole tuttora sedurci –alla sua età!- non intimidirci.
E’ diventato padrone dell’Italia? Può darsi, in effetti ha sbaragliato l’opposizione e la magistratura. Eppure l’uomo, cui non difetta certo l’intelligenza, si sente insicuro. Non solo perché fatica a tradurre in azioni concrete la sua maggioranza parlamentare, e dunque soffre come vincoli ingiusti alla libertà del vincitore tutte le forme di controllo sul suo operato previste dalla divisione dei poteri su cui si fonda la democrazia liberale.
Ciò che preoccupa di più il Berlusconi ansioso del 2009 è la maledizione della crisi economica mondiale che gli è piombata addosso sul più bello. Come dargli torto? La teme come evento ingovernabile, sovrastante. Lo innervosisce fino a spingerlo –lui, il più filoamericano dei filoamericani- a minimizzarla per l’appunto come “virus americano”. Quasi non avesse nulla a che fare con il modello di creazione della ricchezza e di incentivo ai consumi che egli stesso impersona e di cui fino a ieri si vantava. Con il fiuto del venditore, Berlusconi è il primo a sapere il rischio che corre: trovarsi fuori sincronia rispetto alle inquietudini del tempo contemporaneo, cioè alla scoperta amara delle ingiustizie sociali che lo contraddistinguono. Prima fra tutte, la crescita del divario tra ricchi e poveri; lo scandalo dei compensi multimilionari all’élite a fronte di un ceto medio che arretra.
Da venditore coi fiocchi, Berlusconi ha pure capito su quale istinto degli italiani gli conviene investire, per proteggersi dal rischio dell’anacronismo: noi non vogliamo farci venire neanche il dubbio che il benessere cui siamo abituati possa vacillare. Vogliamo che tutto continui come prima, proprio come lui ci raccomanda a proposito di stili di vita e consumi. Mal sopportiamo i gufi menagramo. Vogliamo condividere fino in fondo la sua ilarità. Chiniamo la testa e aspettiamo che la crisi passi, come il tornado in un film d’azione. Lui si offre come uomo forte, nostra protezione. Funzionerà?
Seguendo con divertimento la formidabile messinscena da convention –e si capisce che non poteva concludersi con un voto diverso dall’acclamazione- credo di avere intuito l’azzardo berlusconiano: un vero e proprio braccio di ferro con la realtà. Lui, in persona, contro la recessione planetaria. E chi la dura la vince. Scommettendo, naturalmente, che la crisi passi nel giro di pochi mesi perché altrimenti è difficile pensare che la sofferenza sociale non dia luogo anche in Italia a conflitti aspri come in altri paesi.
Potrete considerarlo patetico o titanico, questo ostentato volontarismo berlusconiano: datemi più potere e io vi salverò. Di certo il suo braccio di ferro con la realtà implica una più decisa presa di possesso sulla televisione pubblica, per avere chances di successo. Le scintille con il Quirinale e con la presidenza della Camera potrebbero degenerare. Alla faccia di Gianfranco Fini, l’alternativa che si pone in riserva, è improbabile che Berlusconi rinunci in questa fase alla forza d’urto della Lega, suo braccio armato esterno. E lo stesso Tremonti rischia il licenziamento se continuerà a strizzare l’occhio a sinistra in previsione di una “grosse koalition”. Sul palco di quella fiera Silvio Berlusconi m’inteneriva come un uomo che tocca il cielo, acclamato ma solitario. Che fatica sarà non precipitarne!