La Pasqua, la croce, la resurrezione

sabato, 11 aprile 2009

Con i miei migliori auguri di buona Pasqua vi propongo questa mia riflessione uscita su “Il Venerdì” di “Repubblica”.
Poiché credo Gesù sia figlio di Dio non diversamente da tutti noi comuni mortali –uomo certo straordinario, profeta che ha avuto il merito di universalizzare i precetti biblici- mi è impossibile attribuire un senso alla sua resurrezione corporea tre giorni dopo il supplizio della croce.
Dunque il mio sguardo al crocefisso, cioè al supplizio atroce cui viene sottoposto quel mio confratello ebreo, fin dall’infanzia è fonte di disagio. Lo dico, sia ben chiaro, con il massimo rispetto per i credenti cristiani. So bene che essi venerano la croce non certo in quanto strumento di tortura ma come simbolo di sacrificio misericordioso. Ciò che li dovrebbe indurre a provare comprensione nei confronti dei popoli che tale croce incontrarono nei secoli sugli scudi e sui vessilli dei guerrieri; e in particolare nei confronti degli sfortunati discendenti del popolo a lungo accusato di “deicidio”: definiti “perfidi giudei”, capitava loro di vivere con angoscia il venerdì santo perché poteva succedere che uno di loro –magari prescelto solo perché aveva 33 anni- venisse trascinato in testa alle processioni e malmenato nella via crucis. Se non peggio.
E’ sgradevole, ma è giusto ricordarlo oggi che ciò per fortuna non accade più. Lo sguardo sulla croce degli “altri”, cioè dei non cristiani, può contribuire a far luce sull’evoluzione significativa che ha avuto lo stesso rapporto dei fedeli in Gesù figlio di Dio risorto e asceso in cielo con la figura del crocefisso.
Oso proporre l’interrogativo: siamo proprio sicuri che lui, Gesù, avrebbe desiderato essere ricordato principalmente attraverso quel simbolo della sua morte? Pongo diversamente la stessa domanda: perché l’iconografia millenaria della Pasqua privilegia così nettamente l’evento della passione –il venerdì- rispetto all’evento domenicale del sepolcro vuoto e dell’uomo che ne esce con le piaghe ma vivo?
La storia dell’arte abbonda di crocefissioni, scarseggia di resurrezioni. Eppure la Pasqua è domenica, la Pasqua non celebra la morte di Dio bensì il miracolo della vita che ritorna.
Mi è capitato di interpellare vari teologi su tale stranezza, ottenendo risposte interessanti ma diverse fra loro.I più problematici tra loro riconoscono esservi, in questo apparente capovolgimento, un elemento di diffusa incredulità anche tra i fedeli. La resurrezione corporea di Gesù è certo il pilastro della fede cristiana, chi può negarlo? Ma è anche l’evento più difficile da accettare per la nostra esperienza umana. Esistono perfino sondaggi che lo confermano. Quando lo si chiede ai praticanti “Ma tu davvero ci credi che Gesù è risorto?”- in molti, con sincerità, esitano. In qualche modo è più facile pensare a Lui come Dio sceso in terra, e inoltre è davvero confortevole oltre che nobile attribuire un significato salvifico alla sua scelta di sacrificarsi per amore dell’umanità, che non accettare l’inesplicabile: era morto, ma tre giorni dopo è uscito vivo dal sepolcro.
Di nuovo ci viene in aiuto la storia dell’arte, perché le diversissime raffigurazioni del crocefisso lungo i secoli evidenziano il mutare della percezione dei credenti di fronte alla figura di Gesù. Nei suoi primi mille anni la religione cristiana ha suggerito ai pittori l’immagine di un Gesù-Dio più forte del supplizio cui veniva sottoposto sul monte Calvario. Lo ritraggono fiero, con gli occhi aperti, il volto sereno, come immune alla sofferenza fisica. Al principio del secondo millennio cristiano sopraggiunge la svolta: Gesù reclina il capo, lacrima sangue, chiude gli occhi, esprime dolore umano. Ravvicinato dai pittori alla sofferenza cui tutti gli uomini sono destinati nell’avvicinarsi della loro morte, la figura stessa di Gesù si umanizza.
E’ come se col passare dei secoli i cristiani sentissero crescere un bisogno di prossimità e confidenza con il Gesù uomo come loro e dunque come loro sofferente, debole. Non temono più di offuscarne la potenza, la divinità. Al contrario, prevale il sentimento della prossimità. Si sviluppa perfino un fenomeno deprecato dalla Chiesa ufficiale che non riesce però a limitarne la diffusione e dunque, più o meno volentieri, lo legittima: il dolorismo. Nelle processioni del venerdì santo uomini pii si autoflagellano, procedono in ginocchio su vetri taglienti, portano corone di spine sul capo. Invano, nelle Filippine, i vescovi cercano di dissuadere dei fedeli intenzionati a provare essi stessi sulla loro carne la sofferenza della crocefissione, pensando con ciò di avvicinarsi a Lui.
Non posso nascondere che fenomeni del genere suscitano in me inquietudine, diciamo pure orrore. Essi cercano di immedesimarsi nel Gesù uomo, forse per trovare una risposta –consolatoria?- al comune destino della sofferenza vissuta nella povertà, nella malattia, nella violenza subita.
Per altri, ormai la maggioranza dei cristiani, tale esperienza del dolore è troppo acuta da sopportare sia pure solo nell’esperienza sentimentale –non fisica- dell’immedesimazione. Astraggono di conseguenza il significato della croce, la quale finisce per dismettere ai loro occhi il suo significato. Diventa mero oggetto, neanche più simbolo di tortura. Altrimenti non ci spiegheremmo la degenerazione pagana che snatura la croce a ornamento, magari tempestato di pietre preziose, perfino collocato con malizia a esaltare le forme del decolleté femminile. Il mistero della Pasqua cristiana torna così distante, irresoluto. La Pasqua cristiana è altrove.

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