Com’è diverso il pellegrinaggio di Benedetto

martedì, 12 maggio 2009

Questo articolo è uscito su “Repubblica”.
Ora che Benedetto XVI ha dissipato a Yad Vashem ogni possibile equivoco sull’interpretazione della Shoah, sarebbe ingeneroso sottoporre il suo viaggio in Israele a un confronto col pellegrinaggio giubilare compiutovi nove anni or sono dal predecessore Giovanni Paolo II. Tanto più che l’impressione postuma che di quell’evento straordinario conserviamo, ha rimosso dalla nostra memoria i sentimenti di diffidenza e scetticismo con cui l’opinione pubblica israeliana accolse lo stesso Karol Wojtyla nel marzo del 2000, salvo poi esserne conquistata.
Capire gli ebrei, di più, apprendere l’amore per Israele pure quando Israele sembra incurante di essere amato: per riuscirvi il papa polacco si fece promotore di un duplice riconoscimento. Salutò il presidente del giovane Stato come “rappresentante della memoria del popolo ebraico nei secoli e nei millenni”, onorando così il ritorno alla Terra Promessa degli esiliati. E poi si fece egli stesso “giudeo fra i giudei” deponendo il suo mea culpa nella fessura del Muro del Pianto, cioè rivolgendosi al Signore col linguaggio spirituale degli ebrei. Con il cuore e l’umiltà del credente, come sapeva fare lui, saltò l’ostacolo della teologia. Difficile pretendere che il papa teologo, votato a conciliare fede e ragione nella dottrina, replichi l’empito del papa mistico.
Lo sforzo intrapreso da Joseph Ratzinger anzichè sentimentale è teorico, dunque per certi versi più arduo. Per questo egli ha usato il freno oltre che l’acceleratore, faticando e oscillando nella difficoltà di formulare una definizione del dialogo interreligioso compatibile con la tradizione cattolica. Mettendo “la fede tra parentesi”, e dunque autolimitandolo, come gli chiedono i propugnatori di una visione identitaria del cristianesimo? Oppure riconoscendolo come sforzo comune tendente all’”Unica Luce”, come si è corretto pochi mesi dopo? Insistendo sulla necessità di un’”illuminazione” degli ebrei –come recita di nuovo la sua preghiera latina del Venerdì Santo- oppure accettando come provvidenziale il mistero della persistenza ebraica, non solo sopravvissuta a millenni di persecuzioni ma rifiorita nella terra di Gesù proprio quando la storia vi ha quasi cancellato la presenza dei suoi seguaci?
Sospinto da un pessimismo accresciutosi nelle tensioni mondiali del dopo 11 settembre, Benedetto XVI ha coltivato la separazione prima dell’unione. Ciò ha provocato non pochi incidenti di percorso, fino a minacciare in taluni momenti la stessa prosecuzione del dialogo ebraico-cristiano che pure egli riconosce essenziale al recupero di un autentico spirito evangelico. Così anche a Yad Vashem, in un discorso veemente contro il razzismo e il negazionismo della Shoah, egli ha preferito ignorare i riferimenti autocritici, coraggiosamente introdotti dal predecessore, sulle responsabilità della Chiesa nell’incubazione dello sterminio novecentesco di cui si macchiarono tanti battezzati.
A complicare una situazione già politicamente deteriorata –non s’intravedono oggi soluzioni ravvicinate del conflitto mediorientale- vi è la consapevolezza di non poter escludere l’islam dalla prosecuzione di questo dialogo. Né in Terra Santa, né sul resto di un orbe terrestre predestinato ormai alla convivenza delle religioni nei medesimi territori.
L’incontro spirituale fra i monoteismi di matrice abramitica è presupposto ineludibile alla pace mondiale. Esso implica il riconoscersi nella fede per l’Unico Dio senza metterla “ tra parentesi”. E senza pretendere che l’islam resti tagliato fuori dal dialogo, quasi che la sua genesi successiva alla comune radice biblica lo condanni al rango di deviazione satanica.
Le vie della fede sono misteriose e tali restano anche quando intersecano dolorosamente la storia delle religioni. Ciò impone al teologo Ratzinger di porsi domande temerarie, oltrepassando i confini della tradizione. Su questo cammino impervio lo conduce il pellegrinaggio a Gerusalemme.

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