Questo articolo è uscito su “Repubblica”.
La designazione di un manager pubblico romano alla presidenza dell’Assalombarda, cioè delle seimila aziende milanesi associate in Confindustria, giunge come la ciliegina sulla torta di una ormai conclamata incapacità della borghesia ambrosiana nel proporsi come classe dirigente.
Alberto Meomartini, amministratore delegato di Snam Rete Gas su nomina del Tesoro, non è stato certo penalizzato dalla sua decennale consuetudine col ministro Tremonti, risalente all’epoca in cui all’Eni li chiamavano i “Reviglio boys”. Si tratta di una figura professionalmente ineccepibile, la cui nomina voluta da Paolo Scaroni e benedetta da Fedele Confalonieri rivela però quanto siano immiserite le aspirazioni dei nuovi cumenda: rassegnati a andare a Roma col cappello in mano per chiedere al governo amico quei finanziamenti pubblici senza cui non solo hanno smesso di decollare gli aerei da Malpensa, ma neppure s’avviano i megaprogetti dell’Expò 2015. Una grana tale che perfino “Il Giornale” berlusconiano ipotizza di liberarsene traslocando la manifestazione da Milano all’Aquila.
E’ davvero un segno dei tempi che al vertice di via Pantano non siedano più un grande industriale come Alberto Falck, un manager privato come Ennio Presutti, un portavoce delle piccole imprese come Michele Perini. Il passaggio di testimone al boiardo di Stato ratifica un cambio di mentalità e di finalità. L’Assalombarda non figura più nemmeno come potentato autonomo nella ridda degli interessi particolari esibiti sfacciatamente come se avessero dignità d’interesse generale. Dove un ministro può essere tranquillamente considerato portavoce del finanziere immobiliarista; il governatore regionale tutela la Compagnia delle Opere; la Lega piazza i suoi per competere in usufrutto clientelare; il manager designato da Berlusconi si ammacca sballottato tra i capiclan locali. Mentre il guardiano del Tesoro, Giulio Tremonti, se ne resta sornione in disparte, pago di avere addomesticato gli ex poteri forti. Con l’aiuto, guarda caso, di quell’altro messaggero del potere romano che risponde al nome di Cesare Geronzi.
L’unico tratto che accomuna le diverse fazioni politiche di un centrodestra lombardo dominatore, privo di alternative, dunque libero di litigare in pubblico, è il compiaciuto senso di superiorità con cui trattano i “gran borghesi” indebitati e subalterni. Fighetta ansiosi di ben figurare in pubblico, ma ormai umili nelle relazioni d’affari. Li abbiamo visti aderire con qualche spicciolo alla cordata Cai, in ottemperanza a una richiesta politica, e poi subire con altrettanta mansuetudine la retrocessione di Malpensa.
Tale è ormai la struttura di governo berlusconiana che il suo stesso dominus viene giustamente percepito come una figura romana; sempre meno Arcore e sempre più Palazzo Grazioli. Perché è nella capitale che si trovano le leve del finanziamento pubblico, come hanno capito benissimo anche i leghisti, alla faccia del federalismo. E’ stato istruttivo nei mesi scorsi vedere Roberto Castelli candidarsi a Commissario governativo per l’Expò 2015: il centralismo diviene cosa buona e giusta se il bastone del comando tocca al lumbard romanizzato.
La vecchia borghesia industriale dei Falck e dei Pirelli ha ceduto il passo ai petrolieri e ai costruttori; ma questi ultimi ignorano, quasi fossero marziani, la rete dei piccoli produttori in cerca d’eccellenza. Perché stupirsi allora se alla Mediobanca romana di Geronzi s’affianca l’Assalombarda romana di Meomartini?