Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Domenica 17 maggio 2009, con tre giornate di anticipo, la società multietnica denominata non a caso «Internazionale Football Club» conquistava matematicamente per la diciassettesima volta il campionato italiano di calcio, grazie alla sconfitta, maturata la sera precedente, dell’inseguitrice padana Milan. Mentre raggiungevo il mio posto in tribuna arancio attraverso la porta 17 di San Siro, dove uno steward mi avrebbe forato per la diciassettesima volta quest’anno la tessera (lo giuro, mi sono testimoni gli altri quarantamila abbonati), avevo già riconosciuto il rovesciamento della sorte insito nel magico numero 17, simbolo dell’atavica sfiga interista, che apparendomi quattro volte di fila – quattro come gli scudetti conquistati a raffica dal 2005/6 – trasmutava da nefasto a gioioso il suo presagio.
Mi trovate un po’ fuori di testa? Lo ammetto, abbiamo bevuto della birra prima di entrare nello stadio, comprandola a caro prezzo dagli abusivi che la estraggono da catini in cui galleggia il ghiaccio, dopo aver trasformato il piazzale intorno allo stadio in un affascinante suk da terzo mondo. Poi altra birra ho bevuto prima di scrivere questo articolo, con la testa ancora calda per via della parrucca di riccioli nerazzurri indossata nella bolgia, seduto accanto a distinti signori con ghirlande di fiori finti dei medesimi colori sociali intorno al collo. Tutti con la maglia dei calciatori addosso, incuranti della pancetta. Coglioni felici intenti a fotografarci l’uno con l’altro, complimentandoci come se in campo fossimo scesi noi, e selezionando gli striscioni migliori. Accantonati quelli banali dedicati al didietro di Ambrosini e dei suoi familiari (si tratta di un giocatore del Milan che due anni fa ci invitò a metterci nel c… lo scudetto, solo perché loro avevano vinto la Champions), il mio personale Oscar l’ha vinto un lenzuolo del primo anello verde, subito dietro la porta: «Tre televisioni, Tre palloni d’oro, Dodici rigori… Ma sero tituli!». Naturalmente è dedicato anch’esso al potere sconfitto dei cugini rossoneri (nell’euforia, non riesco a scacciare del tutto la tentazione di buttarla in politica). E, naturalmente, reca anch’esso lo slogan impareggiabile che ha coniato per noi – da vero comandante supremo – il number one José Mourinho: «Milan? Sero tituli. Juve? Sero tituli. Roma? Sero tituli». Non si tratta di una degenerazione della lingua italiana, bensì dell’elevato contributo che la società multietnica «Internazionale Football Club» reca alla costruzione di un linguaggio universale, superando le incomprensioni da Torre di Babele patite nei decenni scorsi.
Purtroppo, come sempre, la festa dell’Inter ha avuto un neo. Le scritte antisemite con cui degli imbecilli sono andati a screditarci nel centro di Milano, ora che non gliele lasciano più gridare nemmeno in curva Nord, direte voi. Macché, quello è il razzismo quotidiano da cui non resta immune nessun settore popolare della penisola. Mi riferisco invece alle tensioni emerse alla mezzora del secondo tempo fra l’unico italiano dei nostri giocatori in campo – un attaccante di Brescia, come denota il colore della sua pelle – e quell’altro svedese dal cognome inconfondibilmente scandinavo, pretendente al titolo di capocannoniere della serie A. Figuratevi che Ibrahimovic ha chiesto la sostituzione perché Balotelli non gli aveva passato la palla. Ve lo vedete uno così nel Barcellona o nel Real Madrid? Dopo il primo capriccio lo buttano fuori dalla rosa. Noi invece lo adoriamo e gli siamo grati, non solo per il suo genio calcistico inimitabile, ma perché rappresenta l’anima tormentata degli interisti.
Per fortuna abbiamo finalmente un capo, il poliglotta Mourinho, e un amuleto, il numero 17. Altrimenti ci butteremmo tutti nella rissa tra il bresciano e lo svedese. Perché a noi interisti-incasinati piace festeggiare così.