Dal doppiopetto alla camicia verde

venerdì, 5 giugno 2009

Questo articolo è uscito su “Repubblica”.
Conferendo in anticipo la guida del prossimo governo regionale veneto alla Lega, Berlusconi compie una scelta di portata strategica. Una (apparente) rinuncia, la sua, dettata nei tempi forse dall’istinto più che dal ragionamento, visto il danno che arreca al Pdl locale nello sprint di fine campagna elettorale. Eppure tale mossa era prevedibile. Bossi è stato per Berlusconi prima un maestro di politica che un alleato. Affermandosi nei territori del Nord come fondatore di una nazione artificiale, egli ha introdotto quel modello di leadership populista che Berlusconi ha saputo poi replicare su vasta scala con le sue armi mediatiche.
L’articolazione futura della destra italiana prevederà dunque il consolidamento di un partito di raccolta nelle regioni settentrionali. In quel partito hanno ritrovato legittimità pulsioni e culture radicate da secoli nei territori settentrionali, non ultima un’antica tradizione reazionaria le cui origini sono ben rintracciabili nell’Italia preunitaria.
L’istinto berlusconiano riconosce tali energie popolari, poco importa se venate di localismo e xenofobia. Mira dunque a incanalarle, allargando la fetta di torta destinata a Bossi, pur sapendo di rendere così croniche le differenze tra la destra italiana e gli altri partiti conservatori europei. Un banale calcolo di marketing elettorale gli preclude la netta separazione osservata da Sarkozy, Merkel, Cameron nei confronti delle loro destre populiste. Perché la sintonia che egli stesso ha instaurato con l’elettorato prevede siano assecondati i comportamenti antisistema. A suo modo, è un po’ leghista anche lui.
Se dunque nel 2010 avremo una Regione Veneto presieduta da Flavio Tosi o Luca Zaia, dopo che già alle elezioni politiche del 2008 la Lega vi aveva raggiunto il Pdl a quota 27%, non sarà solo perché così facendo Berlusconi spera di mantenere il controllo della “sua” Lombardia. L’autonomismo veneto affonda le sue radici in una sorta di Vandea cattolica mai davvero sconfitta né dall’illuminismo né dal Risorgimento, impregnata com’era di diffidenza della terraferma nei confronti del cosmopolitismo veneziano. E’ vero che senza la guida unificante di Bossi quel movimento sarebbe rimasto marginale. Ma neppure va dimenticato che mentre il leghismo lombardo incorreva nella sconfitta di Malpensa e nelle malversazioni del clientelismo varesotto, al contrario il leghismo veneto esprimeva modelli a loro modo vincenti: dall’autoritarismo trevigiano dello sceriffo Gentilini, all’ordinanza antisbandati del sindaco di Cittadella. Fino alla conquista di Verona, dove l’astro nascente Tosi è riuscito perfino a condizionare la Fondazione bancaria nella vicenda della ricapitalizzazione Unicredit. Da controllori del territorio, gli amministratori della Lega hanno intrapreso la scalata del potere, ma sempre presentandosi come oppositori del sistema fino al limite dell’estremismo nel culto di “sangue e suolo”. Ciò spiega perché non potesse esaudirsi l’auspicio di Massimo Cacciari, cioè l’alternativa di un partito territoriale di sinistra in una regione di quasi cinque milioni di abitanti: qui da sempre il localismo è per sua natura conservatore, intessuto di nostalgia e familismo. Per lo stesso motivo Berlusconi dopo quindici anni dà il benservito al presidente Giancarlo Galan e alla sua speranza impossibile di fondare una Forza Italia veneta.
Già provato dalle tensioni dell’autonomismo siciliano, con la crisi della giunta Lombardo, il Popolo della libertà cede ora il passo al Nord. Un partito costruito su misura per obbedire al suo fondatore, è destinato a subire nei territori il consolidamento di organizzazioni militanti e clientelari. Così la destra antisistema si candida a destinataria di una quota cospicua dell’eredità berlusconiana. Colui che dal predellino di San Babila si offriva al popolo come unificatore della destra italiana, con tutta la sua forza proprietaria, si è ritrovato a inseguire per un anno una Lega sapiente nell’erodergli consensi e tormentarlo. Come dimostrano le vicissitudini parlamentari del pacchetto sicurezza e le figuracce internazionali sulle politiche migratorie.
L’apprendista stregone già passato dal doppiopetto alla maglia girocollo rischia ora di essere trascinato a indossare la camicia verde. Perché la destra italiana sa inglobare ma non sa reprimere le spinte eversive di una società arrabbiata.

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