Perchè adesso sparano su Mario Draghi

mercoledì, 1 luglio 2009

Questo articolo è uscito su “Vanity Fair”.
Nessuno si offenderà se faccio notare che l’italiano più ascoltato al G8 della settimana prossima a L’Aquila non si chiamerà né Silvio Berlusconi né Giulio Tremonti, bensì Mario Draghi. Si tratta solo di una banale constatazione: quando si arriverà al dunque e i potenti della terra cercheranno di stabilire un seguito operativo ai buoni propositi rimasti sulla carta nel precedente vertice di aprile a Londra, tutti gireranno la testa dove sarà seduto, impassibile come sempre, il governatore della Banca d’Italia.
E’ lui, difatti, a presiedere il Financial Stability Board incaricato (d’intesa col Fondo Monetario Internazionale) di realizzare un obiettivo temerario, forse irraggiungibile: la riscrittura delle regole sulla circolazione dei capitali e sui vincoli di responsabilità aziendale, la cui inefficacia viene indicata tra le cause principali della paurosa recessione mondiale tuttora in corso.
In altre parole, Mario Draghi sarà una figura-chiave del prossimo G8 per via di un incarico sovranazionale che prescinde dalla sua italianità. Egli appartiene semmai a quella ristretta pattuglia di grand commis tanto più credibili in quanto hanno già dimostrato di garantire una visione rigorosamente neutrale –direi quasi apolide- sulle scelte comuni che i governi dovranno concertare; rinunciando a una parte della loro sovranità, affidata a organismi internazionali senza i quali si scatenerebbero conflitti devastanti.
Ciò naturalmente attira sul gelido, imperturbabile Draghi, folate di gelosie e sospetti crescenti in proporzione agli imbarazzi suscitati all’estero dalla presidenza italiana. Più i giornali inglesi descrivono Mario Draghi come potenziale alternativa di governo tecnico al discredito che ha ricoperto Berlusconi per il suo stile di vita, e più la stampa governativa s’impegna a mettere in cattiva luce la biografia del governatore.
Viene descritta la sua lunga presidenza del Comitato Privatizzazioni (nel corso dei dieci anni in cui fu Direttore generale del Ministero del Tesoro) come un’epoca nefasta di svendite a vantaggio dello straniero. Diviene motivo di sospetto perfino la sua consuetudine con l’establishment della Banca Mondiale e del Fmi a Washington, per non parlare delle sue vecchie conoscenze nella Federal Reserve statunitense. Rispolverano antiche insinuazioni sulla sua presenza a bordo del panfilo Britannia, di proprietà della regina d’Inghilterra, il 2 giugno 1992, accreditando la leggenda pseudopatriottica secondo cui in quel seminario sulle privatizzazioni italiane si sarebbe consumato il furto del nostro patrimonio, a vantaggio di oscure potenze straniere. L’accusa di tradimento cerca infine appiglio nei tre anni in cui Draghi, lasciato il suo incarico di funzionario pubblico, dal 2002 al 2005 lavorò come vicepresidente per l’Europa della banca d’affari Goldman Sachs. Come se tale attività privata costituisse una colpa, dimenticando oltretutto che fu proprio il governo Berlusconi a richiamarlo per sostituire Antonio Fazio come governatore della Banca d’Italia.
Sono tempi grami quelli in cui spirano tali maldicenze populiste nei confronti delle autorità di garanzia, e una politica in affanno nel governo delle sofferenze economiche se la cava additando la presunta slealtà dei tecnici. Fino a pretendere che questi ultimi mettano la sordina alla doverosa diffusione di informazioni sul ciclo produttivo e sul debito pubblico, perché altrimenti si diffonderebbe il catastrofismo.
Tremonti ha convinto Berlusconi, e insieme sparano a zero contro Draghi senza rendersi conto del danno che ci procurano alla vigilia del G8. E’ la loro stessa demagogia a rilanciare la discutibile alternativa di un governo tecnico per ovviare alla crisi della democrazia italiana.

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